Mario Sconcerti, la Lettura (Corriere della Sera) 31/03/2013, 31 marzo 2013
IL TIQUI TACA COME OPERA D’ARTE
Può il Barcellona essere un’arte? Con il suo fuoriclasse Messi, con il suo gioco di infiniti, piccolissimi palleggi? Con l’assenza-presenza del suo inventore Guardiola, principe stressato che cerca di mettere tempo e spazio tra sé e la sua creatura? È il ritorno di una vecchia domanda, la ricerca di un ponte fra quello che fanno gli uomini e il modo con cui gli altri lo guardano. Una trentina di anni fa, all’epoca del mondiale di Enzo Bearzot e delle novità di Sacchi, si tentò anche una sintesi. Si disse che il calcio era come il cinema, rappresentava modi di essere, ma non chiudeva l’opera, non arrivava all’arte. Era uno straordinario gioco di prestigio organizzato, non un’illuminazione che sopravvivesse. Però, si disse, aiuta a vivere, può essere bellezza, e questi sono compiti dell’arte. In sostanza, il calcio aiuterebbe ad avvicinare il popolo all’arte, senza mai poterlo fare entrare nel salone di casa.
L’Italia di Bearzot sembrò comunque Impressionismo, rottura e inizio, sintesi tattica. Il Milan di Sacchi sembrò Futurismo, codificava il movimento. Poi è venuta la televisione a mostrare il mondo, decine di sfumature diverse, milioni di interpretazioni personali. E dove sta il tutto, si rasenta il niente.
Ora eccoci al Barcellona, una specie di Scienza Nuova che ha prodotto spettacolo e risultati. Il suo calcio si chiama tiqui taca, che vuol dire brevi e insistiti passaggi per tenere a lungo la palla cercando il momento migliore per tirare in porta. Il nome lo dette un giornalista televisivo madrileno molto popolare, Andrés Montes, scomparso tre anni fa improvvisamente a casa sua, forse per un suicidio: i risultati dell’autopsia non furono mai resi noti. Ma l’inventore del gioco è stato Pep Guardiola, attraverso alcune convinzioni tecniche molto nuove.
La prima idea fu di alzare il pressing sull’avversario fino a portarlo a ridosso della sua area. Il calcio moderno prevedeva già da molti anni un pressing largo a tagliare il campo per non far ripartire l’altra squadra, ma fino a Guardiola è sempre cominciato sulla linea di centrocampo e fra centrocampisti. Guardiola pensò che se avvicinava il pressing alla porta otteneva due risultati importanti: andava a mettere fretta non ai centrocampisti, di solito tecnicamente i migliori della squadra, quindi anche i più adatti a uscire dal pressing, ma ai difensori, di solito i meno preparati. Secondo vantaggio, se riconquisti la palla a venti metri dalla porta, sei subito vicino al gol.
Questo ha naturalmente una controindicazione. Una squadra che pressa molto alta deve essere molto corta, non avere cioè più di venti-trenta metri tra il suo giocatore più arretrato e quello più avanzato. Molte squadre in Europa usano da tempo questa tattica, il Barcellona ha però esasperato il concetto, ha come costruito una falange agile, di qualità, mobilissima, larga tutto il campo, con cui spinge continuamente indietro gli avversari. Sono i più eleganti «buttafuori» del mondo. Il tiqui taca consente il possesso insistito del pallone, cioè lascia la scelta del tempo dell’affondo; e produce un avversario costretto a diventare impreciso per la fretta di uscire dalla gabbia.
L’arte sta però nel saper tenere palla facendola girare velocemente, senza perderla mai. La bellezza suprema sta nel veder partire, da questo mosaico orizzontale, magie verticali che saltano le difese e mettono il Barcellona davanti ai portieri. Naturalmente tanto sforzo offensivo offre metà campo libera alle spalle del Barcellona. Un avversario che salta a centrocampo un difensore del Barcellona, ha spesso la possibilità di arrivare direttamente in porta. È successo anche nell’ultima partita contro il Milan a Niang. Era successo due anni fa a Pato. Ma non è facile fare cinquanta metri scattando palla al piede. Chi insegue senza palla è per forza più veloce. E il Barcellona possiede inoltre difensori forti tecnicamente e molto rapidi.
Tutto questo Guardiola l’ha inventato prescindendo da Messi. Prima ha organizzato la squadra, poi ha calato l’asso. È partito da una domanda semplice: come posso ottenerne il meglio? Il ragazzo è uno scricciolo, non arriva al metro e settanta. Non è un grande atleta, senza maglietta sembra più un ragioniere che il più grande giocatore del mondo. Come del resto è capitato anche a Pelè, a Cruijff, Best e soprattutto a Maradona. Ma il calcio è il gioco dell’uomo normale, il fuoriclasse è un artista normotipo che sa gestire l’attrezzo-palla meglio di chiunque altro. Le doti di Messi sono velocità e un tiro innaturale. La velocità, unita a formidabili doti di controllo del pallone, lo rendono quasi imprendibile nel dribbling. Messi chiude la sua differenza con un tiro molto particolare. Non tira quando è normale, quando difensore e portiere pensano tirerà, anticipa la conclusione. Il primo gol al Milan è stato un esempio classico. Ha tirato quando sembrava stesse ancora controllando il pallone. Vista l’azione al rallentatore, stop e tiro sono stati fermati con appena 17 fotogrammi, mezzo secondo di tempo reale. Per i grandi giocatori normali il tempo è almeno doppio, un secondo.
Guardiola ha capito subito che Messi era il fuoco che avrebbe acceso il resto. Messi rende improvvisamente verticale tutta la larghezza paziente del tiqui taca. Senza la sua profondità, molto di quel palleggio resterebbe un esercizio quasi scolastico. Mancava dunque un’ultima condizione: dove collocare Messi per farlo rendere al meglio. È qui che Guardiola ha avuto l’idea perfetta. Messi è una prima punta, un centravanti atipico, ma in quel ruolo troverebbe sempre l’area piena di difensori. Guardiola l’ha spostato allora venti metri indietro, in una posizione quasi laterale, da mezzala avanzata. Poi ha eliminato dal Barcellona non solo il ruolo del centravanti, ma anche il territorio di competenza del centravanti. Il Barcellona nel cuore del suo gioco ha uno spazio vuoto, come un taglio di Fontana sulla tela. In quello spazio devono entrare tutti, Messi compreso, partendo da dietro, senza dare riferimenti.
Questo ha portato a un ultimo adattamento. Il Barça gioca sempre con altri due attaccanti molto larghi, contro il Milan Villa a destra e Pedro a sinistra. Il campo cioè deve essere coperto da una linea laterale all’altra perché questo allarga la difesa degli avversari e aumenta lo spazio per gli inserimenti al centro.
Non so sinceramente se il Barcellona sia davvero un’opera d’arte. Gli olandesi di inizio anni Settanta erano più pratici e ugualmente nuovi. La miglior squadra che ho visto è stata il Milan di Sacchi che però durò pochissimo perché costava molto in energia e Sacchi era un predicatore ossessivo, stancava i giocatori.
Guardiola ha un carisma calmo, è un leader naturale, è stato un campione, è creduto dai suoi giocatori. Quello del Barcellona è chiamato lo Spogliatoio Santo, perché c’è sempre stato un abbandono totale nelle mani del tecnico. Una mancanza di discussione che faceva impazzire Ibrahimovic, per la prima volta normalizzato da un gioco che non lo prevedeva (era un centravanti classico) e da un’aria di chiesa che ne escludeva i pareri.
Forse è Guardiola l’artista. Se l’invenzione del «libero» è stato uno dei più importanti contributi al pensiero italiano del secolo scorso, Guardiola ha inventato un grande spettacolo di massa. Ci vuole una grande architettura interiore per riuscirci.
Mario Sconcerti