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 2013  marzo 22 Venerdì calendario

LA CORSA ALL’ORO DIGITALE


[scheda alla fine]

Secondo il World Economic Forum sono il "petrolio" del futuro, ovvero il combustibile che alimenterà la rivoluzione del millennio digitale. A differenza dell’oro nero, però, i "Big Data" non sono un bene scarso, ma una risorsa fin troppo abbondante: ormai si trovano ovunque e, soprattutto, stanno crescendo a un ritmo impressionante. Secondo uno studio di Ibm, il 90% dei dati di cui disponiamo sono stati prodotti negli ultimi 2 anni. «Ormai ci sono tanti bit di informazione quante stelle nell’universo» dicono gli esperti dell’istituto di ricerca Idc, rendendo bene l’idea del nuovo mondo in cui stiamo per entrare.

Oceano. Ogni volta che clicchiamo "Mi piace" su Facebook, facciamo una ricerca su Google, acquistiamo un biglietto online, contribuiamo ad alimentare il vasto oceano dei Big Data, ovvero quelle informazioni conservate ed elaborate nei data-center delle grandi società o dei governi. Il fenomeno va ormai ben oltre i nostri comportamenti online: l’oceano si gonfia ogni volta che un corriere espresso esce da un magazzino, la cassa di un supermercato fa bip, un passaporto viene strisciato all’aeroporto, un satellite Gps rileva un’automobile. È l’"Internet delle cose", per cui sempre più oggetti hanno un cuore tecnologico che dialoga con altri sensori, producendo così una miriade di dati in totale autonomia.

Le tre V. La studiosa di storia di Internet Mercedes Bunz descrive questa iper-produzione di dati come una «rivoluzione silenziosa», di cui si parla poco. Eppure, il suo impatto è simile a quello della rivoluzione industriale dell’800, quando grazie alle innovazioni tecnologiche aumentarono la velocità, la varietà e il volume dei beni prodotti: «Il primo cambiamento a cui abbiamo assistito è stato quello delle ricerche online» spiega Mercedes Bunz. «Il secondo sta arrivando ora ed è il "tieni traccia di tutto". Tutti gli oggetti diventano piccoli computer: dallo smartphone alle scarpe, passando per le auto, gli occhiali, ma anche le carte di credito e i passaporti. Nel futuro i nostri figli diranno ai loro amici: "Quando mia nonna è nata gli oggetti non parlavano tra di loro, riesci a immaginarlo?"».

Il dato è tratto. E così, dall’infinitamente grande (in poche settimane il progetto Sloan Digital Sky Survey ha catturato più dati astronomici di quanti ne abbia raccolti l’umanità in tutta la storia) all’infinitamente piccolo (oggi bastano 300 dollari per avere una mappatura personalizzata del nostro genoma), passando per la sicurezza o i disastri naturali, non c’è ambito in cui i Big Data non arrivino con un carico pieno di speranze. Come ha sottolineato l’analista Dan Gardner nel libro The Human Face of Big Data «non ci vorrà molto prima che Amazon ci lasci di stucco suggerendoci il libro che stavamo cercando. Lo stesso stupore dei nostri antenati quando videro per la prima volta le carrozze a motore».

Big Data o Big Brother? Come ogni rivoluzione, anche quella dei Big Data apre una porta che va in due direzioni. Quella più nota riguarda le magnifiche promesse di un mondo più efficiente e a misura dei nostri desideri. Quella meno nota, ci pone di fronte a problemi di cui riusciamo solo a intuire le conseguenze. Ad esempio: quanti intermediari ci sono dietro le più semplici azioni che compiamo online? Come ha spiegato l’analista Kord Davis «anche una semplice transazione online come comprare un paio di scarpe, coinvolge la banca, il fornitore di carta di credito, il rivenditore, il produttore di scarpe, la società di trasporto che consegnerà il pacco, il fornitore di connettività internet, la compagnia che gestisce il software di e-commerce. Ognuna di queste informazioni viene salvata e c’è la possibilità che possa essere usata male». I dubbi crescono se, da un semplice acquisto online, ci spostiamo a considerare informazioni più sensibili, come quelle relative alla salute, alla politica, al lavoro. Negli Stati Uniti ha fatto discutere il caso di una nota catena di supermercati che – come ha titolato la rivista Forbes – ha algoritmi capaci di «scoprire se una sua cliente è incinta prima che lo venga a sapere suo padre». E cioè, incrociando i dati sugli acquisti delle clienti, il software riesce a dire quante possibilità ci sono che una ragazza sia in dolce attesa. Ad esempio, ha spiegato un analista della compagnia al New York Times, «se una donna di 23 anni a marzo compra una lozione di burro di cocco, una borsa grande, integratori di zinco e magnesio e un tappetino blu, c’è l’87% di possibilità che sia incinta e che partorisca entro fine agosto».

Da Obama agli oppressori. Il marketing è senza dubbio il settore in cui il data-mining (l’attività di estrazione e analisi delle informazioni raccolte in grandi database) è oggi più aggressivo e preciso. Ma anche a livello politico se ne inizia a fare un uso intenso.
Basti pensare all’ultima campagna per le presidenziali Usa: secondo molti osservatori è stata quella in cui i Big Data hanno svolto un ruolo cruciale per la vittoria di Barack Obama (così come nel 2008 era stato fondamentale il contributo dei social media). All’inizio della campagna i democratici hanno arruolato un team di cento statistici, informatici e ingegneri provenienti da diverse compagnie hi-tech (tra cui Google, Facebook e Twitter) per mettere a punto un potente software, Narwhal, in grado di raccogliere dati provenienti da fonti diverse: non solo i database del partito, ma anche socialnetwork, sondaggi, tv e il classico porta a porta. In questo modo è stato possibile profilare solo in Ohio (uno degli Stati-chiave) 29 mila elettori, secondo diverse tipologie: indeciso, militante attivo, non fa donazioni ma firma e diffonde le petizioni ecc.
Tutto ciò può anche andare bene nei Paesi democratici. Ma, come sottolinea lo studioso Evgeny Morozov, gli stessi strumenti possono essere sfruttati anche dai regimi repressivi per limitare la libertà di espressione. «La Stasi ha utilizzato i Big Data prima che diventassero una tendenza» spiega Morozov. «Qualsiasi strumento in grado di creare connessioni tra pezzi di informazione che prima erano difficili da mettere insieme avrà un impatto negativo sulla privacy. E il discorso vale sia per i Paesi autoritari che per quelli democratici».

Tatuaggi elettronici. Proprio in tema di informazioni sensibili, l’esperta di privacy online Danah Boyd ha sottolineato alcuni dei dilemmi di fronte a cui ci pongono i Big Data: «Se cedo i miei dati a 23andMe (società californiana che effettua la mappatura del Dna), sto cedendo anche dati di mio fratello, di mia madre, del mio futuro figlio» . Parlando poi delle nostre relazioni online, Boyd si chiede: «Chi è il proprietario di uno scambio di email tra me e un mio amico?».
Su questo fronte c’è ancora un forte caos normativo: Facebook non permette di scaricare le informazioni e le foto condivise dagli utenti sul proprio profilo; solo dopo molte proteste, Google ha creato una bacheca (su: www.google.com/dashboard) in cui si possono visualizzare alcune delle informazioni sul nostro conto, di cui l’azienda è in possesso. Ma tutto ciò ancora non basta: non sappiamo, ad esempio, con chi i colossi del Web condividono questi dati, per quanto tempo ne dispongono e, soprattutto, quale autorità fa verifiche.

Irlanda. Facebook, Google e Amazon, ad esempio, hanno la sede legale europea in Irlanda. E, in materia di privacy, rispondono alle regole imposte da Dublino, che sono più blande rispetto a quelle italiane o tedesche. Proprio per questo l’Unione Europea è scesa in campo con una direttiva, tuttora in discussione al Parlamento, per fissare le regole sulla conservazione dei dati in tutti i Paesi europei, chiarendo i diritti degli utenti (accesso e modifica garantita sempre) e i doveri delle società hi-tech (consenso preventivo, divieto di cessione a terzi).
Nel frattempo, sottolinea Juan Enriquez, direttore del Life Sciences Project alla Harvard Business School, dobbiamo essere consapevoli: ogni volta che scriviamo un tweet, facciamo una ricerca su Google, visitiamo Amazon, creiamo una sorta di tatuaggio elettronico che difficilmente potremo cancellare: una volta immesse nell’oceano dei Big Data, non sapremo più dove le correnti trasporteranno le nostre informazioni.
Eppure, secondo la Bunz, basterebbe applicare una regola semplice: «Tutti i dati raccolti dovrebbero essere sempre a disposizione dei proprietari». Ed è proprio in questa direzione che va la recente direttiva della Ue sulla conservazione dei dati. Secondo Bruxelles, ogni cittadino ha diritto all’oblìo (cioè a essere dimenticato) nell’era digitale. È per questo che, quando la direttiva sarà recepita dai Paesi membri, ciascuno di noi potrà chiedere ai social network, così come alla banca online o all’applicazione di viaggi, di restituirci o cancellare i dati conservati sul nostro conto, anche se i server fossero ospitati fuori dal nostro Paese. E, soprattutto, si potrà procedere alla raccolta dati solo dopo esplicito consenso dell’interessato. Le società che non rispetteranno queste regole dovranno pagare multe salatissime: dai 250 mila euro in su. Il governo degli Stati Uniti si è già opposto a queste misure, in una difesa d’ufficio delle società tecnologiche a stelle e strisce. Segno che la battaglia per il controllo dei Big Data è diventata geopolitica.

Controllo. Un’ulteriore conferma è arrivata anche dall’ultimo Itu Telecom World organizzato dall’Onu in ottobre a Dubai, dove le grandi potenze globali si sono scontrate sul controllo di Internet e la gestione dei dati online.
Alcuni Paesi – tra cui la Cina – hanno proposto l’adozione di standard che facilitano il controllo sul traffico internet (e-mail, transazioni bancarie, chiamate vocali). Altre nazioni, tra cui la Russia, hanno invece proposto di trasferire all’Onu il controllo di Internet (ora in mano a diverse istituzioni indipendenti), per politicizzarne la natura. Le proposte sono cadute, ma la battaglia per il nuovo petrolio è solo agli inizi. "
Pietro Verdi






CHI CONTROLLA INTERNET–
Al momento nessuna organizzazione ha il controllo completo su Internet. Esistono, però, 5 enti che ne garantiscono a vario titolo il corretto funzionamento. Eccoli.

Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann)
È un ente no-profit con base a Los Angeles. Gestisce le regole di assegnazione degli indirizzi IP e dei domini di primo livello. È controllato dal Dipartimento del Commercio Usa (e questo ha fatto nascere proteste tra altre nazioni). È guidato da Fadi Cnehadé, ex manager Ibm.

Internet Society (Isoc)
Fa pressioni sui governi per far sì che gli standard tecnologici della Rete restino aperti a tutti e non passino ai privati. L’Isoc ha due sedi, una negli Usa, l’altra in Svizzera (Ginevra), e tra i soci conta 55 mila individui e 130 organizzazioni. Il presidente della sezione italiana è Stefano Trumpy del Cnr di Pisa.

Internet Engineering Task Force (letf)
Sviluppa gli standard tecnologici su cui si basa Internet (come ad esempio il TCP/IP). La gestione è informale: chiunque può iscriversi a titolo personale e partecipare ai gruppi di lavoro. La sede principale è in California, il direttore è Ray Pelletier.

Internet Architecture Board (lab)
Organo consultivo dell’Isoc nato per supervisionare l’Ietf e altri organismi. Prende in esame i reclami presentati nel caso in cui uno standard sia ritenuto poco aperto. Ha un board di 12 membri, oggi presieduto da Bernard Aboba, proveniente da Microsoft.

Internet Governance Forum (Igf)
Forum promosso dall’Onu per far dialogare governi, compagnie, università e altre organizzazioni sul futuro di Internet. La sede è a Ginevra, presso il palazzo delle Nazioni Unite, ed è gestito da un Multistakeholder Advisory Group (Mag) formato da oltre 50 esponenti del settore pubblico e privato.