Paolo Di Stefano, la Lettura (Corriere della Sera) 31/03/2013, 31 marzo 2013
IL CONTINENTE CHE NON C’E’
La letteratura è una geografia di luoghi immaginari. Tra verosimiglianza e inverosimiglianza le combinazioni sono infinite. Ci sono luoghi reali che portano nomi d’invenzione e luoghi surreali che portano nomi realmente esistenti. Ci sono luoghi che è inutile cercare sul mappamondo e dietro cui non si nasconde nulla di fisico: Lilliput, Flatlandia, il deserto dei Tartari, Topazia... Altri che, mascherati da nomi assurdi, somigliano terribilmente a contesti noti. Le 55 città invisibili di Italo Calvino, Diomira Isidora Dorotea eccetera, sono il frutto della fantasia di Marco Polo, dunque visibili solo a lui che le narra, a Kublai Khan che le ascolta e ai lettori che leggono il romanzo: sono visibili solo a chi sa vederle. Pura potenzialità e consistenza letteraria, anche quando la descrizione le restituisce come entità materiali. Dorotea è fatta di «quattro torri d’alluminio che s’elevano dalle sue mura fiancheggiando sette porte dal ponte a levatoio a molla che scavalca il fossato la cui acqua alimenta quattro verdi canali...». La realtà c’è, ma è una realtà narrativa con cui stare al gioco.
La Terra di Mezzo di Tolkien è una regione di Arda abitata da creature fantastiche, elfi, animali parlanti e hobbit: paesaggio mitico risalente a un immaginario Medioevo precristiano. Sono spazi su cui si inscenano storie più o meno leggendarie, più o meno fiabesche, come capita nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, dove la cornice agisce da trampolino di lancio «realistico» da cui ci si immerge dentro una mise en abyme fantastica. Ma mentre nel Decameron non ci si discosta molto dagli scenari mercantili della cornice, altrove il viaggio ci proietta in mondi paralleli.
Tutt’altro discorso è quello che concerne le narrazioni come The Childhood of Jesus di J. M. Coetzee, il quale in passato aveva offerto prove di pura essenza fantastica o metaletteraria: Foe era un romanzo ambientato sull’isola deserta di Robinson Crusoe. Con Novilla siamo invece a metà strada: luogo non realmente esistente ma verosimile, i cui connotati rimandano a un Oltreoceano di lingua spagnola non meglio identificato. C’è un viaggio in barca, ma non si sa bene da dove si parte e non si sa dunque dove si arriva. Una città come tante, in cui approdano frotte di immigrati provenienti dall’altra parte del mondo. E neppure si può assimilare, questo paesaggio, a contesti post apocalittici sul tipo de La strada di Cormac McCarthy. Qui la quotidianità sembra funzionare come sempre, anche se la società sembra opacizzata da un regime lievemente orwelliano.
Le combinazioni, come si diceva, sono pressoché infinite. A proposito di George Orwell, non va dimenticato che — esattamente all’opposto di quel che fa Andrea Camilleri quando ribattezza Vigata la Porto Empedocle teatro delle vicende di Montalbano — l’autore di 1984 assegna un toponimo noto a un paese d’invenzione: e infatti la sua Oceania, perennemente in guerra con le potenze limitrofe dell’Estasia e dell’Eurasia, non ha niente a che fare con il continente australiano, ma è il regno opprimente e astratto del Grande Fratello che tutto vede.
L’opzione morselliana, per un romanzo altrettanto post umano, è ben diversa: dal Grande Fratello al Grande Emporio. La geografia fisica rimane, sparisce invece l’umanità. In Dissipatio H.G., Guido Morselli colloca il suo protagonista, un giornalista «fobantropo», in una ricca città, Crisopoli, anche detta la Città d’Oro, che somiglia in tutto a Zurigo, poggiata com’è su un lago e circondata da montagne: dopo un tentativo fallito di suicidio, il nostro si accorge che nella città (e nel mondo) è rimasto solo: il genere umano si è volatilizzato lasciando tutto intatto. Il Grande Emporio è deserto, come il Mercato dei Mercati, come l’Hôtel Esplanade, come il Ristorante della Borsa, come la Piazza della Parata, tutto è già coperto da un velo di terriccio su cui verdeggiano alcune piantine selvatiche. La città è condannata a ridiventare una sterminata campagna. E dallo scenario reale di partenza ci si avvia verso un panorama allucinato e irriconoscibile.
Lo slittamento topografico o toponomastico è un escamotage che piace agli scrittori per proiettare i loro personaggi entro contesti metaforici e universali, o comunque per aprire più ampie e libere possibilità inventive: ed espressive. Magari in chiave di deformazione grottesca. È il caso di Carlo Emilio Gadda, che ambienta La cognizione del dolore, il suo romanzo «brianzolo», in un immaginario Paese del Sud America ispanofono chiamato Maradagal e appena uscito da un conflitto con il limitrofo Parapagàl: non è escluso che la coppia onomastica richiami Uruguay e Paraguay, e che Parapagàl sia costruito sul lombardo «papagàl». Fatto è che, come ha osservato Emilio Manzotti, dietro il travestimento esotico c’è il calco millimetrico della Lombardia, anche sul piano faunistico-botanico, e più esattamente si riconosce il triangolo «pariniano-foscoliano-manzoniano» tracciabile tra Milano (Pastrufazio, la città dei pastrügn-pasticci), Como (Novokomi) e Lecco (Terepàttola) sovrastata dal monte Serruchón (dallo spagnolo serrucho, che significa «sega»), ovvero il Resegone. E simmetricamente il paese dei Gadda, Longone al Segrino, diventa Lukones (da lôkk, balordo, stordito), mentre Erba diventa El Prado, non lontana dal laghetto del Segrino-Seegrün.
Spostandoci verso nord, pur lontana dagli obiettivi gaddiani, è però analoga l’alterazione toponomastica realizzata da Robert Musil ne L’uomo senza qualità, dove l’Austria della decadenza asburgica viene chiamata con sarcasmo Cacania, «nazione incompresa e ormai scomparsa», «un Paese di geni, e probabilmente fu questa la sua rovina». Non c’è il travestimento realizzato da Gadda né la sua mano deturpante, ma si avverte un feroce graffio satirico quando Musil descrive vizi e virtù del luogo, tra moderazione e grigiore, e si sofferma sull’assetto politico-sociale: «Davanti alla legge tutti i cittadini erano eguali, ma non tutti, naturalmente, erano cittadini».
È vero che il toponimo strambo o esotico si adatta meglio allo scatenamento inventivo della narrazione avventurosa, favolistica, fantastica anche con coloriture noir: pensate ai vari Mompracem, all’Isola del tesoro e all’Isola misteriosa, al Paese degli Ompisci inventato da Alberto Savinio, al Mar delle Blatte di Tommaso Landolfi o alla inquietante Canterville di Oscar Wilde. E non scomodiamo Boiardo e Ariosto. Ma ciò non toglie che, come accade per la Cacania o per il Maradagal, dietro lo scatenamento ludico dell’onomastica si possa trovare anche un paesaggio a metà strada tra realtà e magia. Attorno al più celebre villaggio della letteratura sudamericana, Macondo, si sa, si agitano figure e storie che evocano le vicende della Colombia di García Márquez, guerra civile compresa. Ispirata allo scrittore dal nome di una piantagione del luogo che incrociava spesso nei suoi viaggi in treno da bambino, l’invenzione letteraria sarebbe arrivata, nel 2005, a sostituire il vero toponimo del paese in cui nacque l’autore di Cent’anni di solitudine, Aracataca: omaggio al capolavoro, ma anche alla trovata geniale di un nome dal valore e dal suono fortemente poetico. Esattamente l’opposto di certi toponimi programmaticamente impronunciabili come la città bulgara di Valdberghoff-trarbk-dikdorff, in cui il Candido di Voltaire trovò rifugio dopo essere stato cacciato dal castello di Thunder-Ten-Tronckh. Oppure la famosa contea di Yoknapatawpha, con capitale Jefferson, nella quale Faulkner ambienta capolavori di realismo delirante come Mentre morivo e Assalonne, Assalonne! In origine pensata come Yokona, si tratta in realtà della reale contea di Lafayette, nel Mississippi, ma la deformazione onomastica trascina con sé una cascata di divertite invenzioni topografiche che riflettono forse quel continuo distacco dalla realtà vissuto dai personaggi.
Tornando sui nostri passi, si può certo affermare che nell’accompagnarci dal Paese dei Balocchi al Paese dei Barbagianni, dal Campo dei Miracoli alla Città degli Acchiappa-Citrulli, Collodi volesse travestire l’Italia di favola burlesca, così come Gadda avrebbe mascherato la Brianza di dramma grottesco in salsa sudamericana: del resto, anche la segnaletica toponomastica delle Avventure di Pinocchio appare pressoché inequivocabile nel rinviare a certi caratteri dell’identità nazionale.
È più o meno il Paese, brutalmente degenerato dopo un secolo, che Stefano Benni narra magnificamente ne La compagnia dei Celestini, con le storie di Memorino, Lucifero (!) e Alì, spiriti ribelli dell’orfanotrofio da cui fuggono per poter rappresentare Gladonia al Campionato Mondiale di Pallastrada organizzato dal Grande Bastardo. Gladonia è un Paese incivile, barbaro, razzista, becero, volgare, ignorante, vile, senza speranza, dove può esserci il lurido Motel Tuomuà, un bunker livido in mezzo alla nebbia suburbana, uno dei posti più brutti del pianeta, e dove può tenersi la Fiera del Mocassino, dove un certo Mussolardi governa incontrastato. Già, la toponomastica, spesso e volentieri, ispira e accompagna l’onomastica. È il rapporto di simmetria tra le due la cosa più interessante.
Paolo Di Stefano