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 2013  marzo 31 Domenica calendario

QUANDO I BUDDHISTI SONO CATTIVI

Del sangue e della cenere di Meiktila la Birmania non aveva bisogno, come non servivano il sangue e la cenere sparsi all’inizio dell’estate scorsa nel suo Stato occidentale del Rakhine. Assalti, roghi, massacri. Dispute scaturite da crimini gravi o futili motivi e diventate una minaccia per la tenuta di un Paese che si mostra al mondo voglioso di democrazia, aperture e riconoscimenti. Pogrom, per usare una parola d’altri luoghi e altri contesti: qui però devoti buddhisti aggrediscono musulmani. Una quindicina di monaci avrebbero incendiato la casa di una famiglia islamica, ha riportato anche la Bbc. I linciaggi stanno lacerando, oltre a una Birmania dove l’etnia principale costituisce i due terzi della popolazione, anche la visione di una religione universalmente percepita come pacifica, ingenuamente distante dall’idea stessa di conflitto. Invece no. Le notizie da Meiktila ma anche da zone non lontane da Rangoon, e oltre, mettono in crisi la rassicurante classificazione delle religioni in «buone» e «cattive». Il Buddha sorridente rischia di ritrovarsi in cattiva compagnia, insieme con i fanatici della jihad armata. Un Buddha talebanizzato suo malgrado.
Le religioni sono fatte dagli uomini. E uomini sono i monaci che in Birmania protestano contro la sola ipotesi che ai rohingya (etnia musulmana del Rakhine che il governo relega alla condizione di apolidi) vengano concessi alcuni diritti. Altrove nelle pagode si ascoltano sermoni ostili ai musulmani, presenti da secoli in un Paese che apparteneva alla Corona britannica come l’India, India da dove l’amministrazione coloniale pescava quadri e personale per la Birmania. A pronunciare certe parole è lo stesso clero che nel 2007 e in altre occasioni aveva marciato in faccia alle baionette dell’esercito, chiedendo democrazia in nome di Aung San Suu Kyi. Le religioni, peraltro, non abitano il cielo ma la terra, e in Birmania il mosaico di minoranze, che non necessariamente condividono il credo buddhista della maggioranza bamar, prova una diffidenza verso il potere centrale nutrita da antiche discriminazioni e dalle efferatezze di mezzo secolo di giunte militari.
La sorpresa davanti ai monaci buddhisti che incitano a regolamenti di conti poco misericordiosi non è che una metamorfosi dell’eterno orientalismo, visione dell’Asia (e dell’altro) attraverso aspettative e stereotipi (nostri). Come se dai buddhisti, da chi ha così sete di Nirvana, non ci potessimo aspettare nulla di brutto: non che un bonzo uccidesse nel 1959 Solomon Bandaranaike, primo ministro dello Sri Lanka; non che i lama a Lhasa o in qualche contea tibetana scagliassero pietre contro i soldati cinesi nelle periodiche fiammate d’irredentismo ed esasperazione. Stiamo ancora a quanto scriveva un qualunque capitano che col suo mercantile solcasse le acque del Sudest asiatico negli anni Trenta del secolo scorso, un Alexander Hamilton qualsiasi: i buddhisti «considerano che siano buone tutte le religioni che insegnano a essere buoni» (A New Account of the East Indies, 1930). Ovvero un esempio di tolleranza ed ecumenismo assassinati a Meiktila.
La storia del buddhismo è piena di esempi che contraddicono la lettura orientalista di una religiosità univocamente placida, e quindi puntata verso una rappresentazione dei fedeli come «buoni selvaggi». Non occorre essere eruditi per scovare, dal Giappone al Tibet, profili di monaci guerrieri vuoti di sé — come l’Illuminato insegna — eppure ben armati. Perché, in fondo, la meta finale del buddhista trascende il bene e il male che si possono compiere con la spada. E se, come annotava lo studioso Trevor Ling, «non esistono prove nette che in Paesi dove il buddhismo sia religione di Stato le guerre vengano considerate attività non-buddhiste» (Buddhism, Imperialism and War, 1979), l’armamentario di pratiche e liturgie è persino tornato utile ai soggetti più improbabili: chi assisteva ai seminari rivoluzionari di Pol Pot, il leader dei khmer rossi responsabile dello sterminio di 1.700.000 cambogiani fra il 1975 e il ’79, li riconosceva molto simili per toni e struttura agli insegnamenti ascoltati nelle pagode. In un contesto meno cruento — la Birmania britannica degli anni Venti — il percorso verso l’indipendenza concepito dall’ideologo U Ottama (un monaco, non a caso) veniva assimilato, nel procedere a stadi, proprio alla via che conduce all’illuminazione.
Universo contraddittorio, il buddhismo (o meglio: i buddhismi). Metabolizza i comportamenti che contraddicono la nostra visione di una fede serena, senza spigoli. Il Dalai Lama, la cui causa venne vanamente difesa da guerriglieri sostenuti dalla Cia nel Tibet occupato da Mao Zedong, oggi tenta di dissuadere i suoi connazionali dalle auto-immolazioni per protesta contro la Cina, atti la cui giustificazione impegna i dotti buddhisti in acrobatiche disquisizioni teologiche e morali. Proprio il Tibet, per secoli una teocrazia feudale, offre solidi argomenti a chi sostenga che di per sé essere buddhisti non significa essere buoni: una posizione entusiasticamente abbracciata dalla Cina nel rivendicare la «giusta liberazione» di una regione tuttora non domata.
Lassù sull’altopiano la sovrapposizione fra Stato e religione si è mostrata in tutta la sua ingombrante presenza. Le monarchie asiatiche tradizionalmente hanno cooptato il clero per assicurarsi le sue competenze, che si trattasse di stilare documenti, fornire consigli, guidare ambasciate, insegnare: un meccanismo di interdipendenza destinato a produrre religiosi spesso collaborazionisti e amministrazioni bigotte e compiacenti. E a generare un sistema in cui nazione, purezza etnica e fede coincidono. Eppure, a ben guardare, i pogrom dei buddhisti birmani contro i musulmani parlano alle nostre aspettative pigre, alle nostre facili letture. Se i monaci e i loro fedeli che pochi anni fa protestavano a Rangoon contro i generali sono gli stessi che giustificano l’assalto alle moschee e ai bazar nella valle dell’Irrawaddy, i colpevoli sono gli uomini. E Buddha è innocente.
Marco Del Corona