Francesco Battistini, la Lettura (Corriere della Sera) 31/03/2013, 31 marzo 2013
BALCANI SENZA PRIMAVERA
Fate la carità a un povero pope. All’angolo di piazza Repubblica tira koshava, il vento del Caucaso che ti tiene le mani in tasca e tutto gela, anche il cuore. Non si fanno molti dinari, freddo e fretta, ma padre Dimitrije ha tanta fame quanta fede. Tredici anni fa, qui si radunava la folla per cacciare Slobodan Milosevic, l’incendiario dei Balcani che aveva perso quattro guerre e troppe vite. Dieci anni fa, qui correva la stessa folla impazzita di furore e di paura, perché poco lontano avevano assassinato il premier liberale Zoran Djindjic e, con lui, l’illusione d’un futuro senza tenebre. Sei anni fa, qui si poteva trovare un impunito sottoscala che vendeva ancora le immaginette sante di Ratko Mladic, il macellaio di Srebrenica, o le t-shirt con l’effigie di Radovan Karadzic, il torturatore di Sarajevo, «sia lode all’eroe serbo»…
Adesso, qui c’è padre Dimitrije. Con un pezzo di cartone e la scritta a pennarello nero, «aiutatemi», in cirillico. L’amico belgradese che ci accompagna è indignato e stupito, ma cosa mi tocca vedere, queste cose non le abbiamo avute nemmeno negli anni bui delle bombe, immaginarsi sotto Tito, la Chiesa ortodossa è sempre stata una casta… Ci avviciniamo: padre, ma che fa? Il pope è timido, stalattiti di ghiaccio sulla barba, le labbra violacee. Non si vergogna d’una foto e d’un racconto: viene dal confine col Kosovo, poi gli albanesi incendiarono la sua casa e lui vagò per mezza Serbia, fino alla capitale. L’hanno ospitato un po’ i confratelli, ma la vita qui è più cara, e bisogna arrangiarsi... «La Madonna provvederà anche a me!», è sicuro Dimitrije, che intanto provvede a sé con la mano a scodella per impietosire i passanti della Mihailova: «Quand’ero giovane, venivo a San Sava fiero d’onorare il più grande dei nostri templi. Stamattina, ci sono entrato per stare un po’ al caldo...».
Gli è rimasto un filo d’umorismo: «In vent’anni ho cambiato quattro passaporti: Repubblica socialista federale di Jugoslavia, Repubblica federale di Jugoslavia, Unione statale di Serbia e Montenegro, Repubblica di Serbia. Eppure, l’unica cosa che si sia mai mossa di qui è la mia fortuna...».
Rileggere Marx a Lubiana
«È più facile vincere una guerra che gestire un’economia moderna» (VII congresso della Lega
dei comunisti, Slovenia 1958)
Balkan Memories. La guerra non è più una virtù e la crna bajka, la favola nera di questi duri anni Dieci, ha morali meno eroiche. «Nei Balcani si riassume il destino dell’uomo europeo», dice Lazar Stojanovich, il regista che il comunismo incarcerava per i suoi film irriverenti, oggi tornato dagli Stati Uniti a vivere in una simbolica via di Belgrado proprio dietro il mercato, la Gavrilo Princip, dedicata al rivoluzionario che un secolo fa mandò all’altro mondo l’arciduca d’Austria e, insieme, tutta la vecchia Europa: «Voi venite a vedere che cosa succede qui, perché sta qui la pancia, lo stomaco, l’intestino del Continente!». Un mal di pancia lancinante, uno stomaco imbarazzato, un intestino incontenibile. Con poche certezze comuni — la disoccupazione più che greca, gli stipendi poco più che africani, un nazionalismo che avvelena molti pozzi — e un solo dubbio, a unire ancora i popoli ex jugoslavi, i bulgari, i romeni: che anche l’Europa non sia più la terra promessa, il sogno d’un futuro latte & miele, e che l’ossessione europea degli ultimi vent’anni avesse ben poco di magnifico. È uscito un sondaggio Gallup sul pessimismo nel mondo e s’è scoperto che qui va peggio che ad Haiti o in Cambogia: dopo Gaza e l’Iraq, in poche altre aree del mondo c’è una percentuale tanto alta di gente che la vede brutta e si suicida. Guardate la ricca e insospettabile Slovenia, che nell’Ue c’era entrata bruciando le tappe, allora sentendosi una piccola Austria e ora temendo d’essere la prossima Cipro: oltrepassi il confine di Trieste, guidi su autostrade innevate che nessuno cosparge di sale perché ormai si risparmia pure sugli spazzaneve, la sera t’immalinconisci nel deserto dei casinò frontalieri («vivevamo d’italiani...», sospira un croupier sul lago Bled). Al Triplice Ponte, un sabato mattina di marzo, fra le bancarelle del sanguinaccio e dei calamari fritti, tra cori russi che da un palco offrono buona vodka e nostalgici canti della Grande Madre, un paio di ragazzi propone pure la nuova edizione slovena del Capitale agli eleganti lubianesi, che passeggiano coi levrieri incappottati, e un volantino che invita al convegno «Riscoprire il valore di Marx».
Indietro non si torna, chiaro, ma avanti dove si va? Il bel Paese dove lo ja suona (alla tedesca, diverso dal da di tutti gli slavi), primo a mollare la Jugoslavia issando una bandiera che appiccicava le stelle europee all’insegna araldica dei conti di Celje, ha una recessione al 2,3%. Uno sloveno su dieci è a spasso e appena un giovane si laurea, dopo aver manifestato contro le tangentopoli di governo, scappa in Norvegia. Le banche soffocano nei crediti mai riscossi, c’è un corteo che protesta pure per i prezzi dei funerali: morire a Maribor, grazie alle liberalizzazioni, ora costa il doppio che a Lubiana. «Non abbiamo fatto i conti con una crescita squilibrata — sintetizza un economista molto ascoltato, Lojze Socan — e ci siamo portati dietro il fardello della vecchia corruzione, di quelle tangenti al 25% su ogni affare che azzopperebbero qualsiasi sistema». Vecchie piaghe su nuove ferite. Pure la religione, altro che oppio dei popoli come pensava il vecchio Karl, qui è un olio che unge popoli e affari: sotto Conclave, i giornali rispolveravano una storia datata di appalti e raccomandazioni che sfiorò il cardinale di Lubiana e qualche altissimo prelato vaticano...
Belgrado Far West, Zagabria countdown
«Se da ragazzo me ne fossi andato in America,
sarei diventato miliardario» (Josip Broz Tito, 1976)
L’euroentusiasmo, quel che resta, è negli addobbi d’una Zagabria tinta di blu. Alla libreria Ljevak, hanno appeso un’intervista di Martin Schulz, non proprio Adenauer, ed espongono Una certa idea dell’Europa di Manuel Barroso: non esattamente Schuman. I caffè di piazza Jelacic hanno le bandierine blustellate e i contasecondi lampeggianti, per scandire quanto manca di qui a luglio, quando la Croazia s’aggiungerà a Slovenia, Bulgaria, Romania e diventerà il ventottesimo Stato dell’Unione, il quarto balcanico. «Are you ready for Europe?», una radio stropiccia la canzone di Elton John. Ci sarà festa, alla faccia dei serbi, e la propaganda di governo spera che i fuochi d’artificio coprano l’euroapatia dei disoccupati, il 20%, e distraggano dal Pil in caduta libera. Non sarà tutto oro: chi negli anni Zero aveva delocalizzato dall’Ue in Croazia, ora scappa verso la Serbia. E la Serbia che (lo sa bene la Fiat) offre 9 mila dollari per ogni operaio assunto e fa soldi con l’area economica de-europeizzata della Cefta, in fondo pensa non sia male tirare a campare né con l’Est né senza l’Est russo (primo comandamento titino), godendo i vantaggi d’un Far West senza tetto né legge: «Il serbo tipico — dice il regista Stojanovich — crede che l’Unione Europea ci cambierebbe l’anima, prima dell’economia. Che verremmo controllati, trasformati in una supercolonia tedesca, con le frontiere che non potrebbero più trafficare armi o esseri umani. L’idea qui è che non serva alcun cambiamento, anzi: il serbo si sente il primo, il migliore, può aspettare il 2020 e oltre, non vede che cosa ci sia da imparare. In fondo, tra aiuti ai rifugiati delle guerre, training alle imprese, borse di studio all’estero e infrastrutture ricostruite, piovono già i soldi che servono. Lo stesso, sotto sotto, lo credono anche il bosniaco o il bulgaro: si può flirtare con l’europeo ed essere i migliori amici dei russi o dei turchi. Croati e sloveni, invece, no: loro hanno accettato il gioco di Bruxelles. E ora non sono più sicuri che il prezzo valga la pena». «Sono certa — sbotta Vedrana Rudan, anticonformista scrittrice di Zagabria — che non ne varrà la pena! La Croazia è destinata a diventare un’associazione criminale, dominata dalle solite famiglie, che dirà sempre sì al padrone europeo. È entrata nella Nato, con la stessa logica. Molti croati sono euroscettici, ma i nostri media non lo raccontano perché il mantra è: dimostrarsi felici del futuro che ci aspetta! Il futuro però è lo stesso degli sloveni, dei bulgari e dei romeni: emigrare dove ti danno cinque euro in più. Chi resta, è perché può permettersi la scuola e la sanità privata».
È una divisione in balcanici di serie A e di serie B… «Mi dà sui nervi, questa divisione. Prima della crisi dell’euro, voi europei ci avevate già divisi: i tedeschi di qui, i romeni di lì… Ma io viaggio, so che ci sono italiani, inglesi e perfino tedeschi molto più poveri di me. E romeni molto più ricchi di me. Questo è ciò che ci rende scettici: se siamo tutti europei, non dovremmo identificarci a seconda del reddito. L’Europa ha senso se unifica l’uomo, senza categorie economiche. Altrimenti, meglio restare dove siamo».
I bosniaci e il dilemma della banana
«Bolje grob nego rob», piuttosto la tomba
della schiavitù (slogan jugoslavo
contro gli accordi con la Germania, 1941)
«Fuck Yu & fuck Eu», è uno sticker attaccato alla porta vetro d’un distributore Ina sulla provinciale di Karlovac: né con la vecchia Europa jugonostalgica, né con quella nuova dei banchieri. Ma dal materialismo al monetarismo, dove s’è persa la felicità promessa? Secondo il giornale «Novosti», nei mercati ortofrutticoli della Bosnia. Le normative europee impongono banane non più lunghe di cm 13,97 e non più spesse di cm 2,69. Le pesche non devono avere un diametro superiore a cm 5,60. I contadini bosniaci, che finora rivendevano alla Croazia il 70 per cento di quel che producono e importano, sono nel panico: riusciranno entro luglio a stare in quelle misure? E se no, dove esportare? Anche le sigarette: Bruxelles limita le slim, quelle al mentolo e quelle alla vaniglia, che nei Balcani vanno molto, per non dire della pubblicità (che qui è dappertutto) o dei divieti nei luoghi pubblici (qui le salette sono riservate ai non fumatori).
Il risultato è che il mercato ufficiale è già depresso e il contrabbando euforico, decuplicato in dieci anni. «Non sarei così pessimista — è la voce filocontinentale di Zlatko Dizdarevic, storico caporedattore dell’"Oslobodjenje" di Sarajevo, ex ambasciatore bosniaco in Croazia —. Nessuno s’esalta più, certo, come negli anni passati. Ed entrare nell’Ue non è più la soluzione straordinaria per le nostre vite: basta chiederlo a voi italiani... Ciò nonostante, è la nostra opzione migliore. I nostri politici, la nostra Costituzione, il nostro sistema non funzionano. La pace di Dayton, allora necessaria, oggi non sarebbe più possibile: che senso ha uno Stato scandito dalle etnie e dalle religioni come la Bosnia Erzegovina, con l’enclave serba intatta, con tutti i problemi di comunicazioni e di dogane? La frammentazione resta la nostra condanna. E questo permette ogni manipolazione…».
Manipolazione: il discorso con Dizdarevic non può evitare un certo revisionismo di ritorno, la rivista «Latinoamerica» di Gianni Minà, che qualche tempo fa negava le pulizie etniche, molte pagine della resistenza di Sarajevo, perfino il massacro di Srebrenica: «Si comincia così, a demolire un’identità. Se non si costruiscono in fretta Stati su valori condivisi, programmi scolastici basati su ricostruzioni storiche serie, il rischio dei Balcani è proprio questo: che avanzino i relativisti. La decomposizione politica è stata durissima, ma quella dei valori sarebbe fatale. La nostra sostanza non è tanto nelle nostre terre, quanto nelle nostre società, nelle relazioni tra le nostre genti. In questo, stare dentro l’Europa può essere ancora un’opportunità».
Piramidi, svastiche e mezzelune
«La nostra via passa per il Bosforo»
(Ahmed Dogan, leader del partito turco in Bulgaria)
Stessa faccia, altra razza. I Balcani non sono tutti uguali. Anche le montagne cambiano: a Visoko, cuore di Bosnia, hanno la forma di strane piramidi. Vengono a studiarle da tutto il mondo. E quando s’è scoperto che a collegarle sono tunnel altrettanto misteriosi e a ornarle ci sono antiche lapidi con le svastiche indiane, Visoko è diventata una mitizzata Macondo di chi ipotizza civiltà dimenticate, l’utopia di leggi diverse, stili nuovi. Osare si può: sarà per questo che i 20 mila abitanti hanno eletto, primo caso in Europa, una donna sindaco che porta l’hijab, il velo islamico. «Sono europea e musulmana — dice di sé Amra Babic, professione economista, reputazione serissima —, quel che indosso non è una provocazione. È un credo che dovrebbe accompagnare tutti noi, bosniaci, serbi o croati: vivere da fratelli, in onestà e senza odio». Fratellanza musulmana: è dalla guerra che s’agitano i fantasmi verdi e se un fotografo facesse un time-lapse di questi vent’anni, le immagini in sequenza mostrerebbero migliaia di mujaheddin armati e appartati sulle montagne, di sicuro qualche qaedista, e poi le borghesi sarajevesi che passeggiano sulla Ferhadja alternando le minigonne al velo, i soldi sauditi destinati ai migliori licei femminili, alle banche più ricche, alle moschee più belle… Il governo del Kosovo ha dovuto punire alcuni soldati albanesi che aveva mandato in Arabia perché s’addestrassero e che, invece, si sono fatti crescere la barba della fede e iscritti a una madrassa.
In realtà, il wahabismo è ancora isolato e poco aggressivo: senza soldi e senza troppi diritti, più che dalle infiltrazioni salafite il buon bosniaco si trova ricattato da un nazionalismo che flirta con l’Islam. Il fenomeno nuovo si chiama neo-ottomanesimo, qui. Perché sono i turchi l’ultima sorpresa: gli ottomani di Erdogan hanno già colonizzato mezza Bulgaria e fanno a gara con Al Jazeera nell’aprire uffici della loro agenzia «Anadolu». Fondano imprese nel Sangiaccato, enclave musulmana della Serbia dove i muftì girano con l’Hammer blindato e le bodyguard armate e sembrano dei capimafia. I turchi comprano l’agroalimentare a Banja Luka e il carburante a Mostar, inondando le tv balcaniche di soap opera sull’epica islamica: «Stasera non posso — ci dice un amico che salta una cena a Novi Pazar —, c’è la puntata sulla vita di Solimano il Magnifico...». Raccontano che un ministro di Sarajevo, in visita di Stato ad Ankara, ne abbia approfittato per prendere sottobraccio il presidente turco Abdullah Gül e per avere un’informazione confidenziale: un po’ come faceva il nostro Cossiga durante le missioni negli Stati Uniti, curioso della trama di Beautiful che ancora doveva varcare l’Oceano, il politico bosniaco s’è informato su come va a finire l’ultimo episodio di Solimano all’assedio di Belgrado...
Polvere di Skopje, il lato B di Bucarest
«Quando tutto il mondo mette la lingua sul cuore,
noi mettiamo il cuore sulla lingua» (proverbio rom)
Quanto tempo deve sudare un lavoratore medio, per guadagnare un milione di dollari? L’«Economist» l’ha calcolato: vent’anni negli Usa, cinquanta in Italia, novanta in Portogallo. Al Jazeera Balkans ha provato a vedere quanto ci si mette qui e il risultato, alla fine, non spiega molto sulle diverse velocità: gli eurosloveni impiegano 60 anni, gli eurocroati 80. Gli altri, non ce la faranno praticamente mai: 130 anni in Montenegro, 149 in Bosnia Erzegovina, 158 in Serbia, 189 in Macedonia. Il paradosso è per eurobulgari ed euroromeni, che a quel milione arriveranno più tardi di tutti: in 250 e in 350 anni.
Balcanieuropei, mica facile: dentro per avere la parità o fuori a chiedere la carità? Una vetrina scintillante e globalizzata sull’Ilica di Zagabria non avrà il fascino da socialismo reale d’una impolverata bottega nel vecchio bazar di Skopje, dove si possono comprare ancora le sveglie titine a molla, ma vuoi mettere l’incasso a fine mese? Il bianco e il nero non si distinguono con nettezza, però. Nella Serbia bruttasporca&cattiva, le carceri sono piene come una volta, ma adesso ci arriva un sacco di gente che preferisce la certezza della pena all’incertezza del futuro: in 14 mila sono dentro solo perché, piuttosto di pagare le tasse comunali o le multe stradali, hanno accettato di risarcire lo Stato con la galera (ogni giorno vale 9 euro: con un paio di mesi, si va in pari e magari si risparmia uno stipendio, se c’è...).
Nella Romania che fu accolta con le fanfare a Strasburgo, non se la passano molto meglio: travolti da 136 miliardi di debito, aggrappati con le unghie alle rimesse degli emigrati e alle privatizzazioni imposte dal Fondo monetario, a Bucarest resistono alle sirene populiste dei Basescu e la buttano sul ridere.
Il governo Cameron ha lanciato una campagna per disincentivare le migrazioni verso Londra? Vicino a Palatul Victoria, a rompere il grigio del cielo e il nero degli umori, un’agenzia di pubblicità romena ha risposto con una gigantografia del retro di Pippa Middleton: «Allora venite voi qui: metà delle nostre donne somiglia a Kate, l’altra metà a sua sorella!».
Ci si sente un po’ il lato B dell’Europa, quaggiù: «Sei anni di Ue — spiega il poeta e parlamentare Slavomir Gvozdenovic — non ci hanno dato quel che ci aspettavamo. Basescu non ha vinto le elezioni, ma quando cavalca l’insofferenza verso la Merkel e dice che bisogna frenare un po’ in questa corsa all’Europa, trova molto consenso. Una volta, Schengen era una parola magica: oggi non la pronuncia più nessuno. L’Est ha capito che abbattere le frontiere non elimina i problemi: abbiamo più risorse naturali dei bulgari e dei croati, degli sloveni e dei macedoni, ma anche più corruzione. Strano animale, quest’Europa. Considera noi romeni i suoi paria, più che altro per la presenza dei rom. Poi ci accusa di genocidio culturale, se proviamo a imporre ai rom delle regole. E intanto, vedi la Francia, butta fuori i rom dai suoi confini...».
Torce umane a Sofia, i bambini a Pristina
«Con stridio gli uccelli fuggono nel cielo.
La gente tace, il sangue mi duole nell’attesa»
(Mesa Selimovic in Prima della pioggia, 1994)
«Bambini politici», disse un diplomatico austriaco dopo la Prima guerra mondiale, per definire il nanismo dei nuovi staterelli balcanici. La rivista «Balkan Magazin» prevede una primavera di proteste in tutta la regione, ma il paragone con quelle arabe non funziona. Le grandi spallate sono già state date e al post-comunismo anni Novanta sono sopravvissuti in pochi: il clan dei Djukanovic in Montenegro, l’immarcescibile Berisha a Tirana, l’eterno Branko Crvenkovski che ci riprova in Macedonia… «Qui — dice il regista Stojanovich — non c’è un solo grande popolo da chiamare a raccolta, non abbiamo dittatori da rovesciare, solo qualche cricca corrotta da mandare a casa. Non c’è un apparato militare, di polizia o dei servizi segreti pronti a mollare i potenti di turno. Non ci sono media che spingono verso la protesta sociale: i giornali sono ancora pieni dei miti che ci ossessionano da sempre, il mito della vittoria, il mito del Kosovo, il mito di Tito, il mito di qualsiasi passato… Non c’è nemmeno una religione unica e condivisa. La Chiesa ortodossa serba, per esempio, che dopo Tito vide in Milosevic una grande opportunità per rientrare in gioco, non è potente come la Chiesa cattolica in Croazia, ma rimane capace d’orientare le coscienze e di tenere in piedi il nazionalismo. Ogni popolo balcanico, se vuole una primavera, se la deve fare da sé».
È l’autunno di molti intellettuali che hanno fatto la storia di questo ventennio, nel bene o nel male: si ritira dall’attività Natasha Kandic, la cacciatrice di criminali di guerra che nel 2003 diventò su «Time» il personaggio dell’anno, assieme a David Beckham; si defila sempre più Emir Kusturica, geniale nelle opere e discusso negli atti politici, che proclamò lutto nazionale serbo il 17 febbraio dell’indipendenza kosovara. «La nuova generazione — pensa Stojanovich —ha un atteggiamento più distaccato. Basta vedere la quantità di schede bianche delle capitali, quando si va al voto. Sotto gli Asburgo, gl’intellettuali sloveni dicevano che la cultura sarebbe stata la nostra vendetta. Ora va diversamente». Va col complesso del torcicollo, che ha già partorito i deliri bellici della SuperSerbia e in Bosnia si traduce nel rimpianto di Tito, che riporta al potere i demagoghi delle periferie e dei derelitti. A Belgrado governa l’ex portavoce di Milosevic, Ivica Dacic, e quando in febbraio s’è celebrato il decimo anniversario dell’assassinio di Djindjic, i nuovi capi non si sono presentati alla cerimonia: avevano un appuntamento col dittatore bielorusso Lukashenko.
A Sofia, ultimo paradiso Ue, deluso dall’impoverimento d’un bulgaro su quattro e da un debito più che triplicato, ci sono state sei torce umane in un solo mese. Bruciarsi in piazza per protesta politica è una disperazione tipicamente bulgara, fin dai tempi del comunismo, ma finora la media era di sei all’anno, non sei al mese, e la stampa fa presto a paragonare con la Tunisia che s’è ribellata a Ben Ali: «Chi si suicida col fuoco — spiega Ivo Hristov, classe 1970, direttore del settimanale "Europeo" — compie un atto pubblico. Nella nostra cultura è il tentativo di cacciare il male con un pupazzo incendiato e, insieme, l’inconscio sacrificio d’una vittima sull’altare. La nostra crisi è più profonda dei dati economici. Questa parte di Balcani non è la Grecia, un diabetico che non può diminuire il glucosio: noi siamo un distrofico in cronica mancanza di cibo, apatico, abbattuto da una dottrina monetarista che è diventata un dogma peggiore del comunismo. Chiaro che non basta questa crisi perché un bulgaro rimpianga Mosca e gl’interessi ancora comuni, o sia pronto a esaudire il sogno russo d’usarci per costruire la sua prima centrale nucleare in territorio europeo, o come via necessaria al gasdotto South Stream. Però basta questo a capire che un’altra fregatura, come il 1989 del dopo Muro, è possibile: chi usciva dal comunismo, credeva d’essere invitato con pari diritti al banchetto del capitalismo, ora invece capisce l’errore e s’arrocca nei suoi privilegi. L’egoismo che ci governa si può tradurre in pericoloso nazionalismo travestito da protesta sociale. Abbiamo una casta d’intoccabili potenti, sorda a ogni grido di dolore. Prima o poi, la piazza troverà un suo leader e la crisi esploderà per quel che è».
Sul Clinton Boulevard di Pristina, sono arrivati i chioschi della nuova lotteria. Il primo premio è salito a 200 mila euro, 60 mila più di quelli che si vincevano l’anno dell’indipendenza (2008). I kosovari si mettono in fila, suole sottili sul marciapiede innevato, perché qui la disoccupazione è al 70%: «Sono tornato — si soffia nelle mani Altin Causholli, 36 anni, architetto che un tempo viveva a Pescara — con l’idea che le cose ripartissero. Ho aperto e chiuso due imprese in 5 anni. Ho bruciato in tangenti un quarto dei miei soldi. Non ci sono fogne, non c’è lavoro, nessun imprenditore viene qui dall’estero. Questa, sì, è una fregatura…». Altin se la passa poco meglio del pope di Belgrado e schiuma, se pensa che il Kosovo è stato il più grande investimento mai fatto in Europa dall’Ue: «Un ambasciatore mi ha raccontato, ridendo, che quando la comunità internazionale arrivò a Pristina, a tutti i kosovari fu dato un formulario da compilare: nome, cognome, età, etnia, componenti famiglia… C’era da riempire anche la casella sex, sbarrando sulla M di male o sulla F di female: molti scrissero solo yes. Ridevano molto, di noi…». Dice un proverbio albanese che il bambino non nasce con i denti. Certi bambini, attenti, crescono in fretta.
Francesco Battistini