Cristina D’Amico, Corriere della Sera 31/03/2013, 31 marzo 2013
CHE COSA SIGNIFICA «DIRITTO ALLE CURE»
Il caso Stamina ha sollevato numerosi dubbi, tante obiezioni e domande di ordine giuridico, come testimoniano anche i commenti giunti al sito del Corriere Salute. Poi il decreto legge presentato dal ministro della Salute Renato Balduzzi al Consiglio dei ministri di giovedì 21 marzo (G.U. 26 marzo 2013) ha soddisfatto alcuni e spiazzato altri. Cerchiamo allora, di dare risposte alle principali perplessità con l’aiuto del magistrato Amedeo Santosuosso.
Che cosa pensa del decreto legge che ha autorizzato il proseguimento dei trattamenti con il «metodo Stamina» nei casi «già avviati»?
«Il ministro nel suo ultimo decreto, invece di limitarsi a disporre su questioni tecniche e di sicurezza dei preparati, ha disposto sulle cure da somministrare. Questo è opinabile, visto che il Servizio sanitario è regionalizzato e quindi sotto la giurisdizione delle Regioni. Inoltre, non fa che spostare in avanti il problema, quando si creeranno nuovi casi — già ora vi sono gruppi di familiari che protestano contro il decreto Balduzzi perché troppo restrittivo — e le questioni da affrontare saranno ancora quelle di prima.
«L’intervento del ministro sposta l’eventuale contenzioso perché, a questo punto, dovrebbero essere i medici o gli ospedali — potrebbero rispondere negativamente alle richieste dei pazienti per mancanza di fondamento scientifico dei trattamenti — a opporsi e a impugnare quella decisione, in quanto lesiva delle loro prerogative. Ma si tratta di uno scenario che pare, di fatto, improbabile».
I giudici che hanno accolto le richieste di trattamento con cellule staminali mesenchimali secondo il metodo Stamina hanno richiamato nelle loro ordinanze il «diritto alla salute», come diritto costituzionale fondamentale a ricevere le cure necessarie. Lo si può intendere anche come il diritto a potersi curare secondo la propria percezione dell’efficacia dei trattamenti?
«Il diritto alla salute ha una componente soggettiva, che va rispettata. Ma un conto è considerare la componente soggettiva come un aspetto del danno che una persona può ricevere per effetto di una lesione, un altro è ritenere che la componente soggettiva possa essere elemento fondante del diritto a ricevere un qualsivoglia trattamento, quello che io ritengo mi faccia stare meglio.
«Se così fosse, infatti, potrei fare ricorso al giudice per chiedere che mi si diano, paradossalmente, ostriche e champagne perché soggettivamente ritengo che mi facciano bene. Questo, evidentemente, non è possibile, perché il Servizio sanitario, anche se non ha scopo di profitto, risponde comunque a una logica di tipo assicurativo, con risorse attinte dalla fiscalità generale e prestazione che vengono erogate.
«Politica e amministrazione hanno il dovere di attribuire queste risorse, non infinite, nel modo più appropriato. Ovvero: nel modo conforme a quelle che sono le evidenze scientifiche. Questo è il criterio fondamentale che deve guidare le scelte.
«Il contrario sarebbe una corsa a chi arriva prima a chiedere quello che soggettivamente ritiene giusto».
I genitori che chiedono il trattamento con le staminali per i loro bambini invocano le «cure compassionevoli». Come si può pretendere «razionalità scientifica» quando si tratta dell’unica speranza per casi disperati?
«Cura compassionevole non significa "cura a caso". Significa usare preparati per un patologia in una situazione che è diversa da quella per i quali sono registrati, o preparati che siano comunque in via avanzata di sperimentazione. Il principio di cura compassionevole non è totalmente alternativo a quello di prova scientifica di quello ciò che si cerca».
C’è chi obietta che il diritto alla salute, diritto fondamentale, non possa essere subordinato a questioni di budget…
«Ancora una volta bisogna distinguere. Una cosa è il diritto a non ricevere invasioni del proprio corpo, diritto che non richiede la cooperazione di altri: questa libertà, anche se comporta dei costi, è da garantire al cento per cento. Altra cosa è quando il diritto alla salute si traduce nella pretesa ad avere trattamenti dallo Stato: allora inevitabilmente bisogna tornare a criteri razionali di riparto».
Questo ragionamento però è «freddo», non tiene conto della sofferenza…
«Ho la massima comprensione per le persone protagoniste di questa vicenda che hanno figli in condizioni disperate. Teniamo presente però che, siccome la coperta del Servizio sanitario nazionale è sempre la stessa, che viene tirata da una parte o dall’altra, ragionare "con il cuore in mano" in un caso significa far piangere in un altro. Pensiamo, per esempio, a chi non trovasse un posto in rianimazione per carenza di letti nella sua zona... È evidente, allora, come questa obiezione sia molto suggestiva, ma puramente emotiva».
C’è chi dice: la scienza non è «la verità» e quindi non si può escludere che il trattamento con le staminali secondo il metodo proposto da Davide Vannoni e Marino Andolina funzioni…
«È vero che la scienza non è la verità, ma è l’unica verità disponibile in un determinato momento. Non c’è altro ambito della verità umana che sia così deliberatamente e auto-dichiaratamente provvisorio come la conoscenza scientifica. Ma ciò non significa che quello che noi sappiamo fino ad ora non sia socialmente accettabile.
«Bisogna essere molto chiari: sostenere che "non si può escludere che il trattamento funzioni" vuol dire ammettere implicitamente che quel trattamento, per lo meno al 50 per cento delle probabilità, sia dannoso. Si torna allora alla necessità di avere delle prove. E nel caso dei trattamenti in questione non vi è per ora alcuna evidenza scientifica».
Come mai sono i giudici del lavoro a poter ordinare la somministrazione di questi trattamenti, con provvedimenti d’urgenza?
«I giudici del lavoro hanno competenza anche in materia assistenziale. Ed è comprensibile lo scrupolo del giudice che dispone con provvedimento d’urgenza (ex articolo 700 del Codice di procedura civile, il cui presupposto è che vi sia il fondato motivo che nel tempo occorrente a far valere il proprio diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, ndr). Al di là dei ragionamenti di carattere generale, pensa il giudice, io decido nel caso concreto e, se mi si dice che quel bambino sta meglio grazie a quel determinato trattamento, ordino che si continui, nell’interesse del diritto fondamentale alla salute. Sì, va bene, ma non del tutto, perché il giudice non dovrebbe affidarsi alla dichiarazione di amore e di sofferenza dei genitori, o alla dichiarazione del medico curante, che è quanto meno interessata. Il giudice ha la possibilità di disporre una consulenza tecnica d’ufficio in tempi brevissimi e chiedere di avere risposte in tempi altrettanto serrati. Perché, allora, non esercitare questo potere? Perché prendere decisioni puramente ipotetiche circa il vantaggio del trattamento, anche nel caso concreto?».
Come si concilia la tutela del diritto alla salute con il fatto che si è in presenza di decisioni discordanti dei diversi giudici?
«È comprensibile che ciò susciti sconcerto, ma è il "prezzo da pagare" per avere una magistratura veramente libera di decidere. Questa pluralità di risposte è la garanzia di decisioni calibrate sui singoli casi, nonché della libertà dei giudici nella decisione. E rappresenta anche la possibilità di avere, su questioni incerte, opinioni diverse. In fondo, anche davanti a una diagnosi difficile si consultano diversi specialisti».
Esiste un «diritto alla sperimentazione» qualora se ne presenti la possibilità?
«Innanzitutto, sperimentazione non equivale a "provarci". Per avviare una sperimentazione che possa produrre risultati conoscitivi, e quindi un incremento delle conoscenze, occorre rispettare un insieme di regole procedurali, concettuali, sostanziali valide a livello internazionale.
«L’espressione "diritto alla sperimentazione", inoltre, è una contraddizione in termini: significa affermare il diritto di esporsi quantomeno a un rischio del 50 per cento. La Corte costituzionale, pronunciandosi sul caso Di Bella, affermò che il diritto alla sperimentazione era un’aspettativa compresa nel "contenuto minimo", ovvero non opinabile, del diritto alla salute. A mio avviso, invece, la sperimentazione, è intrinsecamente una prospettiva aperta, e non vedo come la "pretesa di attivazione di una sperimentazione" possa rientrare nel contenuto "indiscutibile" del diritto alla salute e anche un eventuale diritto a partecipare ad una sperimentazione esistente sarebbe un diritto subordinato ai criteri di reclutamento.
«Attenzione, comunque, a non sciupare le possibilità terapeutiche che le cellule staminali stanno cominciando a far intravedere: si assiste ad un rischioso oscillare tra la demonizzazione delle staminali — per problemi etici, politici, sociali, religiosi — e un’ipotesi di un loro uso "corrente"».
Il metodo Stamina è oggetto di richieste di brevetto negli Stati Uniti. In casi particolari, sull’interesse individuale allo sfruttamento economico esclusivo
dell’«invenzione» non potrebbe prevalere l’interesse collettivo alla condivisione delle conoscenze?
«Si tratta di una scelta che ogni ricercatore ha davanti a sé e che non si può imporre: chi vuole perseguire la tutela brevettuale (che significa ottenere una privativa su un qualcosa che viene tenuto segreto) rinuncia alla pubblicazione e quindi come ricercatore non esiste, nel senso che non può pretendere di essere riconosciuto dalla comunità scientifica per avere reso noto il suo lavoro, il risultato ottenuto e il metodo adottato.
«In breve, non si può rivendicare la fondatezza scientifica del proprio lavoro se non ci si sottopone al giudizio dei pari. Tutela brevettuale e fondatezza scientifica si collocano su piani diversi».
Cristina D’Amico