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 2013  marzo 31 Domenica calendario

L’INVENZIONE DEL RINASCIMENTO - A

Padova, tre contemporanee esposizioni eccellenti mostrano vive e autentiche le profonde radici nell’antichità classica, non di una beneducata società di Corte, ma di un ambiente patrizio illuminato e coltissimo, bene inteso a recuperare la migliore tradizione antica con i mezzi più adatti, dopo una fioritura di monumenti romanici e gotici.
In fondo, come a Oxford e Cambridge, dove addirittura si pubblicano curatissimi a caro prezzo gli epistolari di figure assai secondarie del primo Novecento quali Edmund Blunden e Siegfried Sassoon, e vengono letti nelle biblioteche, e commentate sui settimanali letterari.
Lo si riscontra qui alla Loggia e all’Odeo Cornaro, ove il patrizio Alvise Cornaro era un raffinato imprenditore agricolo nonché amico di architetti e artisti, da Falconetto a Sustris. Fra calchi e gessi, e iscrizioni, dunque, e affreschi di paesaggi lagunari e grottesche, dialoghi con citazioni latine e recite dialettali del Ruzante, in un contesto di metope e triglifi e stucchi. Senza influenze o fisime di Marchese o Duchesse o Cardinali, come a Ferrara o a Mantova o a Urbino o al Vasto. Una conversazione colta, insomma, classicistica e paritaria, tra frammenti antichi ormai appartenenti all’ambiente.
Come del resto si viveva e conversava in villa, a Mamiano di Traversetolo (oggi aperto al pubblico, come l’Odeo Cornaro) durante le visite a Luigi Magnani, squisito collezionista con vasti redditi dalle fattorie. E amico dei coetanei Roberto Longhi, Cesare Brandi, Mario Praz.
E là, questa raccolta mirabile: acquistando dai Ruspoli fiorentini lo spettacolare Goya col fratello del re a tavola insieme alla famiglia e al Boccherini; dalle monache di Bagnacavallo il Cristo di Dürer segnalato da Longhi. Dagli Odescalchi romani sfumò l’acquisto di uno stupendo Caravaggio (Caduta di Saulo, e pensare che per Luigia Pallavicini caduta da cavallo il Foscolo se la sbrigò con una Ode), perché la consorte di un coerede ottenne la somma pattuita dal padre notaio. I magnifici Morandi vennero scelti uno a uno. E inoltre nel grande salone si ammirava la spinetta di Beethoven, accanto a una grande tazza marmorea di manifattura imperiale russa… Nonché un indimenticabile Amleto (con fantasma) di Füssli. E una ragguardevole Madonna con Bambino e Santi tizianesca, ancora dalle collezioni dei Balbi genovesi.
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Analogamente, in questa magnifica mostra padovana su «Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento». Con illustri contributi saggistici, al disopra d’ogni laudatio giornalistica: Guido Beltramini, Cesare Segre, Lina Bolzoni, Sergio Momesso, e parecchi altri preclari. Può così tornare in mente l’insigne «Henrica» Malcovati, antica maestra di classicità all’Università pavese, nel secolo scorso. O magari, davanti al giovanile De Aetna, composto alla fine del Quattrocento a Messina, certe filastrocche per i più piccini rammemorate nella tarda età.
«Il vulcaaano, è un gran monte! Che vomita fffoco!... Ed erutta! lava e polve! lapilli, lapilli e terror! Zum! Zum!».
Al termine, forse un problema a causa del grande San Sebastiano del Mantegna, già nella raccolta del sommo anatomo pavese Antonio Scarpa. Non è un ragazzotto riccioluto e indifferente con le gambe un po’ corte come nel Tiziano della famosa pala «della Lattuga». Appare adulto e longilineo, con una espressione ambigua tra piacere e dolore. Ma se la sofferenza fisica si deve naturalmente alle sedici freccette molto superficiali, l’equivoco godimento si deve alla prossimità del Paradiso o a una normale soddisfazione sadomaso?
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«Gli Asolani sono opera di un poeta e di un retore, non di un filosofo». «Sempre, nella vita del Bembo, il calcolo pratico e l’adattabilità alle circostanze si accompagnano a un estremo rigore mentale». «Le ambizioni poetiche del Bembo non andavano al di là dell’esperimento, della prova di forza: restavano ai margini di un interesse critico». «Al di là del Petrarca e del Boccaccio, era, secondo il Bembo, la decadenza». Ecco alcune sentenze di Carlo Dionisotti, nella sua famosa introduzione alle Prose e Rime del Bembo. Ma quell’otium tra ville e Corti risulta qui laboriosissimo, fra lo studio dei geroglifici egiziani, il ragionare sull’Amore platonico e neoplatonico, l’esame delle proporzioni degli ordini architettonici — basi, colonne, capitelli, dettagli di profili — secondo Vitruvio e Leon Battista Alberti…
E il culto delle antichità romane, fra monete e iscrizioni illustri, teste marmoree sommamente espressive, bronzetti locali del Riccio, da scrivania o comodino. E ritratti contemporanei di giovani languidi, estremamente romantici prima di ogni Romanticismo…
Ma soprattutto, coetanei e colleghi e vicini come nelle stagioni migliori di Londra, Parigi, Vienna, Hollywood. Duchi e marchesi regnanti e poetanti, pontefici medicei e latinisti, madame rilevantissime quali Caterina Cornaro, Lucrezia Borgia, Elisabetta Gonzaga, Vittoria Colonna, Isabella d’Este, Emilia Pia, il cardinal Bibbiena con la sua stufetta… E il genitore Bernardo Bembo acquirente di Memling a Bruges, e a Firenze amatore di Ginevra de’ Benci ritratta da Leonardo…
Intorno, intanto, tutta una vasta galanteria. «Amor, speme, piacer, tema e dolore». Nonché «senno, valore, bellezza, leggiadria, natura et arte»… E gli Asolani come ossessione concettuale e concettosa dei «ragionamenti d’amore» distaccati da ogni carnalità. E l’organizzazione grammaticale e sintattica della «volgar lingua», secondo le dottrine in ogni secolo… Altro che otium.
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La cultura antiquaria più raffinata trionfa anche agli Eremitani, dove accanto al Crocefisso di Giotto e alla Collezione Capodilista si stende una vasta mostra su «L’incanto del libro illustrato nel Settecento veneto». Fra le preziosità massime, qui, ecco una serie di schizzi tenebrosi, burrascosi, minacciosi: Scherzi e Capricci evidentemente esoterici di un Tiepolo non già «rosa» ma nero, nerissimo. Macché grazie o delizie o Angeliche e Medori, in queste decadenze sofisticate. Macché benigna Notte. «Lungo il cammino stramazzar sovente», piuttosto.
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Che fior di pittore si mostra intanto Giuseppe De Nittis, al Palazzo Zabarella. Almeno in tre diverse maniere, eccelle.
Strade di polvere in ampie prospettive frontali, fra una masseria e un’altra, nella Puglia originaria. Ah, Barletta, dove si trova la sua Pinacoteca; e dove lui non arrivò in tempo a ritrarre i cinema dentro i vecchi teatri, con giovani pescherecci commossi dal ragazzo Gianni Morandi che cantava «Fatti mandare dalla mamma, a prendere il latte».
Le Parigine eleganti, disinvolte e snelle, una generazione dopo l’altra immutabili, alle corse di Auteuil o slanciate e sorridenti lungo gli itinerari dello shopping.
Anche dopo il Secondo Impero, a Parigi, sontuosi ricevimenti negli opulenti saloni della principessa Matilde Bonaparte, dove fra dame e cavalieri in toilette da sera non sarà certamente mancato il mondanissimo conte Gegè Primoli. Fiori a mazzi in primo piano, baluginare di argenterie, pizzi e merletti e passamanerie in abbondanza. Che sfarzo. Che lusso. Che tendaggi. Che chic.
Alberto Arbasino