Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 31 Domenica calendario

SIRIA, IL BAMBINO GUERRIERO AHMED CHE A OTTO ANNI STA CON I RIVOLTOSI —

«Ahmed, rispondi alla domanda, come ti chiami?». Seduto su una sedia di plastica bianca in mezzo a una strada in rovina nel sud ovest di Aleppo, con un kalashnikov tra le gambe, i piedi che non toccano per terra, Ahmed si accende prima una sigaretta, sotto lo sguardo compiaciuto dei due ribelli che gli siedono a fianco. Ahmed, quanti anni hai? «Otto» dice, e indicherebbe la cifra con le dita, come fanno di solito i bambini, se una delle sue mani paffute non fosse occupata a reggere la sigaretta.
Ahmed, dove sono i tuoi genitori? E lui racconta, diligente e stentoreo, tra nuvole di fumo: «Sono morti, sotto un bombardamento. Mia madre è morta e io l’ho baciata, così», si china in avanti, urta la punta dell’arma.
La scena si sposta dietro il muretto di un terrazzo, dove uno dei due guerriglieri, presumibilmente suo zio, gli mostra come si innesca e si lancia una granata. Il piccolo scatta istintivamente in una fuga indietro, ma viene riagguantato e tenuto giù, al riparo da un nemico che comunque non deve essere lì accanto, giacché un secondo più tardi Ahmed esulta allo scoperto, senza conseguenze: «Allah Akbar!», Dio è grande.
Il video, girato dal fotoreporter italo-americano Sebastiano Tomada Piccolomini e pubblicato dal quotidiano inglese The Telegraph, sta facendo il giro del web, come prova di quanto si stia abbassando l’età media nell’esercito di liberazione siriano. Ahmed è il testimonial di decine, forse centinaia di adolescenti arruolati tra i ribelli; e pare ben immedesimato nel suo triste ruolo. Cerca con gli occhi l’obiettivo della telecamera che lo segue mentre trotterella veloce per una delle strade più martoriate della città nel quartiere abbandonato dai civili di Salaheddin: è fiero, Ahmed, di essere il tamburino sardo della tragedia siriana. Quasi certamente il più giovane del Free Syrian Army. Quasi certamente il simbolo prescelto di una guerra che non conosce limiti né pietà.
Orfano, Ahmed è stato adottato da uno zio e da una ben strana famiglia in tuta mimetica, che invece di proteggerlo e allontanarlo dal fronte, lo ha fieramente mantenuto in prima linea: «Non ho nessun altro — dice a chi lo intervista —. Ho finito per stare qui ad aiutare mio zio. Non c’è più scuola, la mia famiglia è morta: che altra scelta ho?».
Posa con l’Ak-47, maneggia il caricatore e i primi piani rivelano che ha ancora le fossette sul dorso delle mani impolverate. Ma tra i suoi compiti forse non c’è ancora quello di uccidere: «Faccio fatica a sparare, le armi pesano, ci riesco soltanto da sdraiato». I grandi lo imbeccano: «Sei il nostro aiutante, vero?». «Sì, munizioni, cibo» elenca le sue occupazioni, serio e compreso nella parte che gli è stata affidata a tempo indeterminato.
Non c’è incoscienza nelle parole di Ahmed: «Qui non mi annoio mai, c’è sempre da fare. I combattimenti si sono calmati parecchio dallo scorso anno, ma i cecchini sono ancora un grosso problema. Prima o poi il regime ti bacia con uno dei suoi proiettili», aggiunge.
La sua immagine di piccolo uomo rimbalza di sito in sito: «Un bambino di sette anni — lo ringiovaniscono, come fosse necessario, il Times e Alarabya.net — prende le armi contro Assad». Il sito ricorda che le convenzioni internazionali, sottoscritte anche dalla Siria, vietano l’utilizzo di ragazzi sotto i 18 anni nei conflitti, e l’utilizzo di adolescenti sotto i 15 anni è considerato addirittura un crimine di guerra. Ma di bambini-soldato si sono riempite negli ultimi mesi le case diroccate di Aleppo e di Homs.
Majid, un non meglio identificato sedicenne in forza ai ribelli, ha descritto il suo addestramento e il suo impiego in combattimento: «Portavo il kalashnikov, attaccavo i check-point, catturavo i soldati e li disarmavo». Era volontario, assicura, ma gli adulti gli hanno insegnato come si fa a montare e smontare un’arma, a sparare e a colpire. Difficilmente ci sarà qualcuno in grado di insegnare loro, un giorno, a tornare ragazzini.
Elisabetta Rosaspina