Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 29/3/2013, 29 marzo 2013
CRISTIANO RITORNA ALLA BATTAGLIA
Il cognome pesa. Molto. I figli d’arte, a volte, hanno la strada spianata. Non nella musica, dove il confronto con i padri è più spietato che ingombrante. Il talento di Filippo Graziani e Alberto Bertoli è conclamato, ma per vederlo parzialmente riconosciuto hanno “dovuto” tributare – con gusto e garbo – i padri Ivan e Pierangelo. È una trama che Cristiano De André conosce bene. Ne ha chiari gli snodi, le pieghe, le tracce. Se avesse anagrafe diversa, verrebbe costantemente annoverato tra i migliori cantautori della sua generazione, non meno di Daniele Silvestri e Samuele Bersani. Invece, di lui, si parla spesso per i bicchieri di troppo e gli scontri sentimentali. Non per la voce, così vicina a “quella” voce, o per le canzoni autografe. Il 2 aprile uscirà il nuovo disco di inediti, Come in cielo così in guerra (Universal), con relativo tour scattato due sere fa da Firenze. Dal precedente Scaramante sono passati dodici anni. Il doppio esatto rispetto ai tempi di scrittura dell’ultimo Fabrizio De André: 1984 Creuza de mà, 1990 Le nuvole, 1996 Anime salve. Erano gli anni in cui Cristiano frequentava Sanremo, piacendo alla critica e alle groupies, forse più attratte dalla piacevolezza dei lineamenti che dalle doti di polistrumentista. Nei tour del padre c’era anche lui. Hanno scritto insieme, si sono scontrati ferocemente (soprattutto nei Settanta e Ottanta). Perduti e ritrovati. Se n’è andata anche la madre, Enrica “Puny” Rignon, che al padre ispirò brani indelebili (Canzone dell’amore perduto, Verranno a chiederti del nostro amore).
CRISTIANO è artista che ostenta spigoli per camuffare fragilità. Per Come in cielo così in guerra, dieci brani e 38 minuti di musica, ha voluto la produzione di Corrado Rustici e i Fantasy Studios di Berkeley in California. Rustici ha già incrociato Aretha Franklin e Whitney Houston, De Gregori e Ligabue, Elisa e Zucchero. In questo disco veste di sonorità malinconicamente rock sfoghi e invettive, autoanalisi e istantanee. Il capitolo conclusivo, La bambola della discarica, è una poesia di De André e Oliviero Malaspina, metafora di un mercimonio generalizzato: “È tutto un meretricio, fisico e intellettuale. Siamo ben oltre la ‘puttana’ di cui parlava mio padre. Quella tutto sommato aveva una sua dignità: allora una donna in genere si prostituiva per mangiare, non per comprarsi un paio di scarpe di Jimmy Choo o una borsa di Prada. Stiamo finendo tutti in una discarica come quella bambola”. A volte i testi, solitamente ispirati e immaginifici, inciampano in banalità per l’urgenza di dire (e condannare). Il disco, però, si mantiene su livelli alti. C’è la cover di Les vent nous portera dei (maledetti) Noir Desir. C’è una carrellata di autoritratti che grondano dolore (Disegni nel vento, Il mio esser buono, Sangue del mio sangue, Vivere e Ingenuo e romantico). Canzoni covate da tempo, ora scagliate e ora proposte con grazia disarmante. Cristiano De André tratteggia un mondo oltremodo suo in cui vivere è “fare un accordo con gli angeli e risultarci simpatici”.
DI FRONTE al desiderio - spesso morboso - di scandagliarlo, non oppone resistenze: “Io so che a qualcuno faccio paura e non mi accetta. Altri invece pensano che io sia debole e cercano di schiacciarmi. Quindi preferisco mostrarmi per quel che sono realmente piuttosto che nascondermi. La fatica maggiore è trovare persone che abbiano voglia di aprirsi: ormai c’è un’omologazione pazzesca, una specie di globalizzazione del pensiero. Spesso la gente non ha voglia di parlare. A me invece piace scavare. Bisogna guardarsi negli occhi e crescere insieme”.
Gli occhi un po’ tristi e i segni sul volto di cinquantenne controvento, racconta che l’obiettivo resta la libertà: “Con le certezze degli illusi, con le bellezze dei sognatori”. Nel 2009 e 2010 ha riempito teatri ricantando il repertorio del padre, e in parte lo fa anche nel nuovo tour. Strana e violentissima forma di catarsi: curare le ferite tributando chi, per troppo amore e troppo genio onnivoro, le ha involontariamente procurate. A Cristiano hanno detto “bravo” in maniera direttamente proporzionale alla sua vicinanza con il padre: più rinunciava alla propria originalità, più era forte l’applauso; più “sembrava lui”, più scattava l’ovazione. Era il primo a sapere che l’unica risposta – l’unico lenimento – avrebbe dovuto coincidere con un bel disco di inediti. Come in cielo così in guerra non vanta la naturalezza istintiva dei primi lavori – L’albero della cuccagna, Sul confine – che ne palesavano già le qualità. Ha piuttosto i connotati dell’opera matura, segnata e sanguinante, inesorabile e arrabbiata. È un messaggio di aiuto, arrivato sulle nostre spiagge dopo aver affrontato mari in burrasca. È album di marinaio, di sopravvissuto. Musica di città vecchie e porti antichi, sogni infranti e utopie resistenti, che suona bene e fa un po’ male. A chi la esegue e a chi la ascolta.