Piero Bianucci, La Stampa 2/4/2013, 2 aprile 2013
INDIA, SI’ AL FARMACO LOW COST CONTRO IL CANCRO
La battaglia che l’India e molti paesi in via di sviluppo stanno combattendo è economica, ma anche politica e filosofica. Economica, perché una cosa è pagare un cura contro i tumori 2600 dollari, altra cosa pagarla 175. Politica, perché una parte del mondo detiene un potere culturale che deriva dal secolare predominio sulla parte più povera del pianeta. Filosofica, perché lo scontro legale tra India e Novartis (e poco prima tra India e Roche) si colloca nel quadro più ampio del dibattito sulla libera circolazione della conoscenza e sulla crisi del concetto di copyright e di brevetto nel mondo globalizzato.
Per inquadrare il problema è utile ricordare alcuni dati. I farmaci in circolazione sono circa seimila ma le molecole veramente utili sono 400: nella maggior parte dei casi i farmaci sono varianti di varianti che usano lo stesso principio attivo. Spesso le case farmaceutiche rivitalizzano un vecchio prodotto con una nuova formulazione che, presentata come più efficace, rilancia brevetti altrimenti scaduti.
D’altra parte, scoprire nuove molecole efficaci diventa sempre più difficile. Nel lungo percorso che porta in commercio un nuovo farmaco, su cento molecole potenzialmente efficaci, 60 vengono scartate già nella prima fase di sperimentazione perché si rivelano dannose, instabili, poco efficienti. Delle 40 che superano l’esame, dieci cadono in fase pre-clinica. Ne restano 30 che affrontano la sperimentazione in Fase 1. Di queste 16 falliscono. In Fase 2 le 16 molecole sopravvissute si riducono a 9, che affrontano la Fase 3, cioè la corsa finale verso la registrazione e il bancone del farmacista. Una moria precoce così vistosa dà l’idea di quanto sia diventata impegnativa la ricerca di nuovi principi attivi: l’età dell’oro, quando scoprire nuovi farmaci era relativamente facile, è finita. Vale per gli antitumorali e ancora di più per gli antibiotici: da anni non si riesce a trovarne di nuovi, mentre quelli noti diventano sempre meno efficaci per il noto fenomeno della resistenza sviluppata dai batteri.
La difesa delle case farmaceutiche - multinazionali, con bilanci paragonabili a quello di uno stato - è ovvia: la ricerca costa molto, se non ci sono guadagni certi per un congruo numero di anni sui farmaci di successo, è impossibile finanziare studi per trovarne di nuovi. Va in crisi l’industria, ma ci rimette anche la salute di tutti, ricchi e poveri.
In ogni caso, poiché c’è di mezzo la vita di intere popolazioni, non è etico che il brevetto di un farmaco sia illimitato. Quando la casa produttrice è stata ragionevolmente remunerata, è bene che altre aziende possano produrlo a prezzo inferiore. Di qui la limitazione del periodo di validità brevettuale (vent’anni) e l’introduzione dei farmaci generici.
In Italia l’era dei generici è iniziata nel 1996. La parola «generico», peraltro, è infelice: suggerisce l’idea di approssimativo e quindi di inferiore al prodotto di marca. Per correggere il tiro ora si parla di «farmaci equivalenti». Anche l’aspetto è importante: il farmaco equivalente spesso non ha una confezione attrattiva come il farmaco firmato. Inoltre a lungo una parte dei medici, il cui aggiornamento è pagato al 95% dalle case farmaceutiche, ha continuato a prescrivere il marchio anziché la molecola (informando dei suoi equivalenti), come si richiede dall’agosto 2012. Conseguenza: in Italia gli equivalenti hanno circolazione limitata mentre in Danimarca sono il 60 per cento del mercato, in Gran Bretagna il 52, in Germania oltre il 50 per cento.
Nei paesi in via di sviluppo la questione è più drammatica, la disponibilità di farmaci a basso costo è un fatto cruciale. Malattie come il cancro, l’ipertensione, il diabete hanno mercati da centinaia di miliardi. L’Aids fa strage in Africa perché il costo della cura è insostenibile in quella economia. La malaria uccide un milione di persone l’anno che potrebbero essere salvate se le spietate leggi del profitto fossero superate. Un discorso a sé meriterebbero le «malattie orfane», cioè quelle sulle quali le case farmaceutiche non fanno ricerca perché sono rare, e pochi i potenziali clienti.
Come uscire dal circolo vizioso profitto-ricerca? Forse finanziando di più la ricerca pubblica di base, in modo che le case farmaceutiche possano concentrare gli investimenti a colpo più sicuro.