Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 30 Sabato calendario

QUEI «MOVIMENTI» CHE NON HANNO LA FORZA DI SMUOVERE LA STORIA

Secondo Jürgen Haber­mas, nella sua Storia e critica dell’opinione pubblica, la società civi­le è composta da associazioni e movimenti che, più o meno spontaneamente, intercettano e intensificano situazioni socia­li problematiche per poi tra­smetterle, amplificate, alla sfe­ra politica. È questo lo spunto adottato da Pino Casamassima per Movimenti - Dagli indiani metropolitani agli indignati: le mille stagioni della rivolta globa­le (Sperling&Kupfer, 383 pagi­ne, 19,50 euro). È una storia, che mancava, dei movimenti che si sono succeduti dal 1977 (il Ses­santotto ha una storia a sé) fino a quello attualissimo delle 5 stel­le. Denominatore comune è la metafora della molla: «I movi­menti sono come una molla, che rilascia con violenza la pro­pria forza propulsiva e che a un certo punto rientra, ma mai del tutto, lasciando una traccia, o un graffio, nella nostra storia». Spesso di tratta di fenomeni poco più che mediatici, come quello dei paninari dei primi an­ni Ottanta, amplificato dalla ne­onata, e aggressiva, televisione commerciale. Nel decennio del disimpegno una generazione «senza più santi né eroi», per dir­la con Vasco Rossi, sostituisce Bob Dylan con i Duran Duran e decreta «il trionfo di un narcisi­smo che utilizza sempre più spesso la parola “apparenza”. Esteticamente, “apparire” si co­niuga con la cura dell’abbiglia­mento e del fisico». Appaiono nuovi soggetti sociali che con la loro non-azione politica, il loro non-impegno sociale giustifica­no la sc­omparsa del lavoro e la fi­ne della politica: due fra i miglio­ri capitoli del libro.
Nella scuola il movimento dei «Ragazzi dell’85» passa indiffe­rente­ sotto le forche caudine del­le analisi sociologiche e mediati­che, che avevano setacciato i fratelli maggiori del Settantasette e del Sessantotto. Appare e scom­pare senza conseguenze la Pan­tera, movimento studentesco nato e morto nel 1990. Accadrà lo stesso, due decenni dopo, al­l’Onda, che contesta politiche economiche giudicate danno­se per la scuola.
Sono movimenti destinati al­l’oblio per la mancanza di una forte identità e di violenza. Se il Sessantotto aveva vinto sul pia­no sociale, pur subendo una sconfitta epocale sul piano poli­tico, era stato anche perché aveva goduto della massima visibili­tà proprio grazie alla violenza. In Italia era stata la battaglia di Valle Giulia, con gli scontri fra celerini e studenti, a comunica­re all’opinione pubblica che i giovani cresciuti all’insegna del “benessere” volevano uccidere i padri. Invece il soporifero de­cen­nio degli Ottanta viene scosso unicamente dalla deriva omi­cida delle Br, ormai allo sbando dopo l’assassinio di Aldo Moro.
Intanto, nel mondo c’è un nuovo movimento che presto penetrerà anche il tessuto politi­co italiano in un crescendo di se­guaci: il «No Nukes». Quel «No!» all’energia nucleare ormai dive­nuto un vessillo tuttora svento­lante sulle società europee. An­che in questo caso è la musica a soffiare sulle pulsioni giovanili: dalla West Coast americana, il profeta Jackson Browne canta una nuova ribellione, e quando sbarca in Italia con il suo tour conquista nuovi seguaci alla causa. Nel 1988 il concerto di Bruce Springsteen sotto la porta di Brandeburgo, a Berlino, fu più efficace di qualsiasi discor­so: galvanizzati da tre ore di mu­sica “politica”, i giovani tede­schi saranno pronti, da lì a un an­no, a picconare il Muro che divi­deva amici, fratelli e genitori da quasi tre decenni. A raccogliere le schegge del Muro c’erano tutti i soggetti dei nuovi movimenti, insieme ai re­duci di quelli precedenti. Punk e Skinheads ballano insieme per una notte prima di confon­dersi fra le pieghe di generazio­ni non più catalogabili, a diffe­renza delle precedenti. Da quel momento germoglieranno nuo­ve identità, «l’un contro l’altra armata», fino al movimento No Global, che da Seattle chiama a raccolta i giovani di tutto il mon­do per ripensare un sistema di vi­ta diverso. Anche in Italia si svi­luppa un sentimento che va ol­tre il «pensiero verde», fino a produrre un’idea considerata blasfema da generazioni che aveva­no cresciuto i figli all’insegna del consumo: la «Decrescita». Le teorie di Serge Latouche apro­no prima timidi sentieri, poi stra­de sempre più larghe e destina­te a essere percorse da gran par­te dei giovani, indipendente­mente dalle idee politiche.
I nuovi mezzi di comunicazio­ne, specialmente internet, con­sentono aggregazioni transna­zionali ma anche unioni estem­poranee, come quelle dei Black Block, che si ritrovano in un’oc­casione s­pecifica per poi rientra­re nei ranghi delle proprie specificità, magari in altri movimen­ti. Grazie al web si aggregano movimenti contestativi quali No Tav, Non dal Molin, No Mo­se, il Popolo viola, i Girotondini, San Precario, fino al revival del Movimento delle donne (Se non ora quando) e quello i cui striscioni avvertono «La vostra crisi non la paghiamo noi», e «Noi 99, voi 1»: dagli Occupy Wall Street agli Indignados di Madrid, agli Indignati italiani. Sullo sfondo, la Grecia della cri­si ­economica brucia fra le retori­che che la ricordano come «cul­la della civiltà occidentale»; ma è soltanto un attimo, c’è altro cui pensare: occorre abbattere il Potere, quale che sia. È questa la molla che origina i movimen­ti e che li tiene in vita. La beffa è che il Potere si rinnova e si perpe­tua proprio grazie ai movimenti che lo vogliono abbattere.