Giulia Zonca, La Stampa 30/3/2013, 30 marzo 2013
UNO STADIO CHE VALE UNO STATO LA PALESTINA RIPARTE DALLA FIFA
Nello stadio di Gaza ci sono quattro crateri al posto del campo, la tribuna è squartata, il tunnel di uscita è un ricordo coperto di macerie che una gru comincerà a spostare all’inizio di giugno. Al posto dei buchi ci sarà un prato sintetico e la capienza di 10 mila persone raddoppierà grazie ai 4,5 milioni di dollari che la Fifa ha deciso di stanziare. Un nuovo impianto, un nuovo inizio. L’ennesimo eppure stavolta non si tratta di tirare su un anello di gradoni, ma di piantare un’idea.
Un progetto banale che nasconde un ideale ambizioso, il finanziamento non serve solo per ristrutturare lo stadio crollato sotto le bombe della milizia israeliana lo scorso novembre, ma foraggia scuole calcio, campetti da costruire, un’accademia che si occupi di riunire i talenti, una casa per la nazionale che ora spesso non riesce neanche ad allenarsi in gruppo prima delle partite. La Palestina non ha uno Stato riconosciuto da tutti ma ha una squadra che porta la maglia e l’orgoglio del Paese, una struttura ufficiale, ammessa a competizioni internazionali. Esistono, hanno una federazione nata nel 1928, entrata nella Fifa nel 1998, nella confederazione asiatica nel 2001. Hanno giocato la prima amichevole in casa nel 2008 e lo stadio era appena stato riassestato dopo una delle tante distruzioni, nel 2006. Altra tappa fondamentale nel 2011, quando hanno ospitato la prima gara ufficiale contro l’Afghanistan. Stadio tutto apparecchiato, bandiere, inno e cori. Quel posto è un segno di riconoscimento e quindi un bersaglio.
La struttura, piccola, minima e importantissima è stata costruita nell’era Arafat. All’inizio ignorata, poi testata con cautela, è presto diventata il centro di identità e di polemiche. Il semplice fatto che ora riceva appoggio da un progetto firmato Fifa è molto più di un aiuto finanziario. È un certificato di esistenza, quasi una promessa. Gli israeliani non si sono mai presi la responsabilità delle bombe, molte star del pallone hanno protestato e chiesto che venisse tolta a Israele l’organizzazione degli Europei Under 21 in programma a giugno. Richieste e cortei ignorati, però questi milioni di dollari significano che il calcio internazionale ha preso atto del danno e spalleggiato una federazione che ci ha messo 70 anni per farsi riconoscere.
Di solito il pallone è più cauto, più neutrale. Nella spiegazione del fondo «Goal projects» non c’è accenno alle condizioni dello stadio, ma c’è pieno «aiuto alla federazione palestinese». Abbastanza per aprire qualche strada oltre ai campi di calcio che dovrebbero stabilizzare un campionato costretto a seguire rivolte e attacchi, a restare sospeso. Dodici squadre confinate nei territori della West Bank e un campionato a singhiozzo. A volte si gioca e a volte no. Capitava anche alla nazionale, fino a tre anni fa succedeva che si ritrovassero in nove o in dieci. C’era chi non poteva viaggiare, chi era respinto al confine, chi spariva proprio. Ora sono più strutturati, hanno persino attirato un giocatore con il passaporto americano: Omar Jarun, nato in Kuwait, madre statunitense, padre palestinese e la scelta imprevista di giocare per una nazionale che è difficile da raggiungere. E da capire. Giocano le qualificazioni per i Mondiali del 2014, ma più realisticamente sperano di riuscire a piazzarsi tra le squadre ammesse all’Asian Cup del 2015, destinazione Australia. Alla loro sfilza di prime volte manca un vero torneo internazionale. E uno stadio che non sia la foto di un Paese devastato, ma l’ispirazione per un futuro diverso.