Sebastiano Messina, la Repubblica 2/4/2013, 2 aprile 2013
IL SONNO DELLA POLITICA GENERA NEOLOGISMI
L’ultima trovata è la più affascinante, non come formula politica ma come invenzione lessicale, ed è il «governo a bassa intensità».
Ma chissà se il suo autore si rendeva conto di evocare quelli che i manuali militari chiamano «Low Intensity Conflict», ovvero una guerriglia non convenzionale, che sarebbe l’esatto contrario di un’alleanza di governo. La stagione degli ossimori arriva quando la matematica si arrende, e in Italia — paese di poeti, santi, navigatori e soprattutto di inventori — nulla è più semplice che trovare un nuovo nome, una nuova etichetta, una nuova insegna quando non si riescono a trovare soluzione da “Paese normale”. Perciò prepariamoci ad aggiungere una nuova pagina ai manuali di diritto costituzionale, e a cercare con il microscopio dello scienziato gli incerti confini giuridici del «governo di scopo», dopo quello «del presidente». La politica debole genera neologismi.
E già che ci siamo, converrà aggiungerne almeno un’altra, o altre due, per descrivere e spiegare l’inedito assoluto dei “dieci saggi”, questi dieci superesperti in leggi elettorali o in manovre finanziarie che Napolitano ha promosso al rango di protagonisti della crisi di governo, però senza dar loro alcun rilievo istituzionale, perché dovranno preparare una relazione sull’urgente, sul necessario
e soprattutto sul fattibile ma dovranno rivelarla a lui solo, e non al Parlamento né al prossimo presidente incaricato, e poi tornarsene nell’ombra, come fantasmi della Costituzione.
Del resto, la storia della Repubblica è piena di interpretazioni innovative e di invenzioni salvavita. Tutto cominciò, lo sappiamo, con le «convergenze parallele ». Ossimoro perfetto, che faceva convivere la distanza e l’incontro, rimandando alla definizione della geometria scolastica: due rette parallele si incontrano solo all’infinito. Eravamo alla fine degli anni Cinquanta e molte cose consigliavano un’alleanza tra democristiani e socialisti. Però mezza Dc non voleva far entrare Nenni in quella che lui avrebbe chiamato «la stanza dei bottoni », e mezzo Psi non voleva rompere con i comunisti. Così, dopo il disastroso fallimento del governo Tambroni, la fertilissima immaginazione di Aldo Moro partorì una formula che avrebbe traghettato Dc e Psi verso un esecutivo con ministri di entrambi i partiti. E lo fece al congresso di Firenze del 1959. «Diviene indispensabile — disse — progettare convergenze di lungo periodo con le sinistre ». Non disse mai, Moro, «convergenze parallele», anche se il suo discorso fu tradotto così, e così fu battezzato il terzo governo Fanfani, che il 26 luglio
1960 nacque grazie all’astensione dei socialisti. «Non potevamo fare diversamente », annotò Pietro Nenni sul suo diario, il 2 agosto. «La soluzione Fanfani ha evitato il rischio di un vero e proprio colpo di Stato».
Prima di allora, un altro governo era nato da un parto anomalo, sul piano dei rapporti con i partiti: quello formato da Giuseppe Pella nell’agosto del 1953. Dopo il crollo dell’ultimo gabinetto De Gasperi, il presidente Einaudi decise di dar vita a un «governo amministrativo», privo di ogni colorazione politica, che avrebbe dovuto solo far approvare la legge di bilancio. E così chiamò Pella, suo ex allievo all’università. Lo fece senza consultare nessuno, addirittura lontano dal Quirinale: l’incarico fu affidato in una dependance di Villa Farnese a Caprarola, e comunicato a due giornalisti arrivati lì per avere notizie. Uno di loro
era Vittorio Gorresio, che domandò: e le consultazioni? Einaudi rispose secco: «La Costituzione non parla di consultazioni e si affida al criterio del capo dello Stato, e il mio criterio mi dice che in questo momento quello che è necessario è un governo». Sopportato più che appoggiato dalla Dc, che lo definì gelidamente «un governo amico», il gabinetto Pella durò cinque mesi e un giorno.
Ancora più breve, quattro mesi e un giorno, fu la vita del «governo d’affari» che — ancora una volta senza consultazioni — nacque il 25 marzo 1960. Non riuscendo a trovare una maggioranza, il presidente Gronchi nominò a sorpresa il dc Fernando Tambroni: c’era da fronteggiare un’emergenza sportiva, le Olimpiadi di Roma, e il Quirinale aveva visto in Tambroni un uomo che avrebbe potuto avere la simpatia (e soprattutto l’astensione) dei socialisti. Ma le cose
andarono diversamente: Tambroni ebbe la fiducia solo grazie ai voti dell’Msi, e il «governo d’affari» andò a sbattere sulla sanguinosa repressione — cinque morti — della protesta di piazza a Reggio Emilia.
Trovare una maggioranza quando la somma dei numeri non la dà, ecco la sfida che hanno dovuto affrontare sei presidenti della Repubblica su undici. Dopo Einaudi e Gronchi, e prima di Cossiga, Scalfaro e Napolitano, anche Giovanni Leone si trovò davanti allo stesso rompicapo, dopo che le elezioni del 1976 avevano ricreato — stavolta con il Pci al posto del Psi — lo stesso scenario del 1960: fare un governo con i comunisti era impossibile, governare senza di loro pure. E così a Giulio Andreotti fu dato l’incarico di guidare il suo terzo governo, che sarebbe passato alla storia come il «governo della non sfiducia»: un monocolore democristiano — ingentilito dalla presenza della prima donna ministro, Tina Anselmi — al quale il Pci di Berlinguer garantiva l’astensione (e la sopravvivenza). Altre due parallele che sarebbero riuscite a convergere senza incontrarsi mai.
Poi è arrivata la stagione dei tecnici. Il primo a farne un uso massiccio fu Amintore Fanfani, che dopo la caduta del governo Craxi ebbe l’ingrato compito di formare un esecutivo per andare alle urne e dunque nominò sei ministri (su 25) senza tessera di partito. Ma quel «governo elettorale» stava per rimanere prigioniero di una mossa del Psi, perché Craxi annunciò a sorpresa il suo voto favorevole: e se il governo avesse ottenuto la fiducia, Cossiga non avrebbe potuto sciogliere le Camere. Così, per la prima volta nella sua storia, la Dc fu costretta ad astenersi. E centrò il suo paradossale obiettivo: la bocciatura del suo governo.
La storia del governo Monti, il «governo del presidente», è cronaca fresca. Ma il primo «governo tecnico» lo nominò Oscar Luigi Scalfaro il 17 gennaio 1995. Il primo gabinetto Berlusconi era stato irrimediabilmente affondato dalla Lega, ma lo spirito del maggioritario appena inaugurato impediva la nascita di un esecutivo di segno opposto. Da qui l’invenzione del «governo tecnico», che Scalfaro affidò a Lamberto Dini, ex direttore generale di Bankitalia, a sua volta diventato ministro proprio in quanto tecnico. Nel governo non entrò nessun parlamentare, proprio per sottolineare la sua autonomia dai partiti, ma questo non bastò a evitargli l’accusa berlusconiana di essere solo «il governo del ribaltone ». Cadde il 17 maggio 1996, un venerdì 17, e qualcuno ci lesse un segno della cattiva sorte di quello sforzo di fantasia.