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 2013  marzo 31 Domenica calendario

ROBERTO BOLANO IL TRIONFO NON FA PER ME

BARCELLONA
Nella cucina letteraria di Roberto Bolaño viveva un guerriero. «Un guerriero che alcune voci (voci senza corpo, né ombra) chiamano scrittore», spiegava lui stesso in un articolo del 2001. Una mostra allestita dal Centro di cultura contemporanea di Barcellona (“Archivio Bolaño 1977-2003”, fino al 30 giugno) svela ora una parte di quella grande cucina in cui sono stati sfornati capolavori della letteratura contemporanea come
I detective selvaggi (1997) e 2666, monumentale opera postuma. Gli ingredienti: storie, ossessioni, vita quotidiana, ritagli di giornale, fotografie. E gli strumenti: taccuini e quaderni invasi da una calligrafia cristallina e torrenziale, la macchina da scrivere con i tasti consumati, il rudimentale computer, senza dimenticare i suoi inseparabili occhiali da vista.
Bolaño, cileno di nascita, visse la sua adolescenza in Messico, dove abbandonò la scuola a quindici anni per dedicarsi alla sua vocazione di scrittore. Dopo aver girovagato il Sudamerica — tornò anche nel suo Cile alla vigilia del golpe del 1973 e passò otto giorni nelle
carceri di Pinochet — si stabilì in Spagna che aveva ventiquattro anni: Barcellona, Girona, Blanes, dove diventerà padre. E il decennale della sua morte, che lo sorprese a cinquant’anni mentre aspettava un trapianto di fegato che non arrivò in tempo, è il momento scelto dalla vedova, Carolina López, per aprire una parte del suo archivio (quattro romanzi, ventisette racconti e centinaia di poesie, la sua prima passione, sono ancora inediti) e far emergere così le sue due uniche grandi ossessioni: leggere e scrivere, fino allo sfinimento.
La sua cucina era sempre aperta. «Era capace di svegliare la gente all’una di notte per commentare un verso di una poesia. Nella mostra si può leggere una descrizione minuziosa di una pala d’altare medievale per poi scoprire che è una riproduzione su una scatola di cerini che aveva davanti alle quattro di mattina mentre lavorava come guardiano notturno nel campeggio di Castelldefels », racconta Juan Insua, organizzatore della mostra insieme a Valerie Miles. I suoi incessanti esercizi di stile non disdegnavano nessun ingrediente; notizie bislacche e di dubbia veridicità provenienti dalla Cina cui i giornali dedicavano un insignificante trafiletto — un uomo di 142 anni che pedala in bicicletta, un bambino i cui occhi portentosi possono vedere attraverso i muri e un mostro marino che appare in un lago come se di una Nessie orientale si trattasse — si trasformano in una storia coerente che prende vita prima in un’agenda, poi in un quaderno e finalmente in una copia dattiloscritta con la quale parteciperà a un concorso letterario, uno dei modi in cui Bolaño tentava di tenersi a galla economicamente. «Era al corrente di tutti i concorsi. Una volta disse che i premi erano bufali e lui un pellerossa che doveva andarne a caccia, perché da quello dipendeva la vita. La prima volta che lo fece cacciammo insieme e la nostra freccia fu Los Consejos», ricorda con orgoglio Antonio García Porta,col quale Bolaño scrisse appunto il suo primo romanzo, nel 1984,
Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce.
Le ricette elaborate potevano essere tenute in caldo aspettando il momento propizio; una frase di un taccuino del 1980 chiude nove anni più tardi il secondo capitolo di un romanzo, La pista di ghiaccio. I dispiaceri del vero poliziotto, su cui lavorerà dal 1990 al 2003 (e che uscirà postumo), è in gran parte smembrato e fagocitato
da 2666.
Ma non erano liquidi solo i confini tra un’opera e l’altra, bensì anche quelli tra realtà e fiction. Mentre
La letteratura nazista in America è una dettagliata enciclopedia di scrittori immaginari, le vicissitudini sue e dei suoi colleghi diventavano oggetto di narrazione, come nel meraviglioso racconto Sensini, in cui i protagonisti sono un giovane partecipante di concorsi letterari e un grande vecchio della narrativa. Vittima del suo stesso gioco metaletterario, Bolaño entrò a far parte, come personaggio, de I soldati di Salamina
(2001), romanzo chiave della Spagna contemporanea, il cui autore, Javier Cercas, fu un suo caro amico nelle ultime tappe della vita.
Il suo riconoscimento come artista è tardivo, e però indubitabile. Mentre in Cina apre una libreria che si chiama “2666”, negli Stati Uniti l’effetto dei suoi
libri «è più simile a uno tsunami che a una marea ascendente, tutto il mondo che legge letteratura parla di Bolaño», scrive Barbara Epler, direttrice di New Directions, la prima casa editrice a pubblicarlo negli States. «Una parte della mia libreria è riservata ai classici dei quali periodicamente rileggo qualche pagina. In quello scaffale ci sono Salinger, Borges, Joyce, Proust e senza che me ne accorgessi Bolaño vi si è intrufolato », confessa Porta. E Insua rincara la dose: «Allo stesso modo in cui Bolaño disse che chiunque scriva in spagnolo deve passare per le fessure e le porte lasciate aperte da Borges, oggi qualsiasi scrittore che voglia dire qualcosa di nuovo in castigliano deve passare per l’opera di Bolaño». Un passaggio obbligato a partire da
I detective selvaggi, il ricordo dei suoi movimentati anni messicani (Arturo Belano, uno dei protagonisti, è il suo alter ego) e un canto d’amore alla poesia omaggiata in forma di prosa. Spiega Porta: «Quando lo leggi, sai che è figlio di una generazione nuova, capace di scrivere con lo zaino in spalla, seduto per terra, totalmente diversa da quella del Boom». Il Boom a cui fa riferimento è il movimento di cui si è appena celebrato il cinquantenario. Nel 1962 furono pubblicati libri come La città e i cani, opera prima di Mario Vargas Llosa, La Mala Ora e I funerali della Mamá Grandedi Garcìa Márquez, La Morte di Artemio Cruz di Carlos Fuentes e Storie di cronopios e di famas di Julio Cortázar, che solo un anno dopo avrebbe dato alle stampe Il gioco del mondo.
Un terremoto che collocò l’America Latina al centro della letteratura mondiale e lasciò un’eredità difficile da gestire. «Gli scrittori della generazione successiva al Boom si trasformarono in epigoni, continuatori senza talento, oppure cercarono, con scarso successo, di uccidere il padre, dicendo che i Vargas Llosa e i Márquez non erano poi così eccelsi. Bolaño fu l’unico capace di fare quello che, citando Pasolini, si deve fare con i maestri: mangiarli in salsa piccante.
Squartarli, tirarne fuori le budella, cucinarli e poi divorarli per creare qualcosa di nuovo», chiosa Cercas.
Una metafora che ci riconduce a quella cucina in cui Bolaño non smetteva mai di combinare, amalgamare, creare. Il guerriero che vive in quella stanza «sa che alla fine, qualsiasi cosa faccia, uscirà sconfitto», scriveva. Del resto lo aveva spiegato a chiare lettere quanto poco gli importasse di uscire vincitore dalla battaglia con i demoni della letteratura: «Non credo nel trionfo. Tra i trionfatori uno può incontrare gli esseri più miserabili della terra, e fin lì io non ci sono arrivato. E non credo di avere lo stomaco per arrivarci».