Walter Siti, la Repubblica 31/3/2013, 31 marzo 2013
ROMA LAS VEGAS LA LUNGA NOTTE DEGLI SPOT PEOPLE
ROMA «No, nun te credere ch’è riciclaggio… ce dev’esse ‘n giro d’egiziani… ‘o capisco da ‘e ragazze, so’ ‘e stesse… fanno ‘e cameriere ‘n pizzeria e n’antro giorno ‘e ritrovi qua a ‘e macchinine… quelli se so’ creati ‘na fortuna co’ er ristorante de San Giovanni, e mo’ cercano da reinvestì…». Fabietto, il mio provvisorio Virgilio in questo giro per la Tiburtina, non dà peso agli allarmi sulla presenza della malavita organizzata, scommette piuttosto sull’invasione degli immigrati. Che l’Egitto c’entri qualcosa sembrerebbe confermato dal bar di fronte, anch’esso con la sua piccola dotazione di slot: si chiama nientemeno che Cleopatra. Siamo al Las Vegas, una delle sale giochi, o casinò automatizzati, che si stanno pian piano disseminando lungo la consolare; involucro di alluminio anodizzato, tutto nero e rosso, con tante luci e un poker d’assi gigantografato all’ingresso. Per arrivare qui (a un paio di chilometri dal ponte sulla ferrovia, zona Casal Bruciato più o meno) di posti
simili ne abbiamo già incontrati due: il Terry Bell e il Manhattan. Ma erano più modesti, cupi e con un odore di chiuso, il classico odore di disinfettante che si sente nei pornoshop, sedie girevoli di pelle e un solo gestore alla cassa.
Qui al Las Vegas l’investimento è stato maggiore, alla cassa c’è una cagliaritana mora e carina che assorbe le attenzioni di Fabietto; ci spiega che le ragazze sono in tutto una decina e che fanno i turni perché la sala è sempre aperta (dice orgogliosa «acca ventiquattro ») e che due volte al giorno passano con dei piattoni di pasta gratuiti per i giocatori; anche ora, saranno le sei e mezza di sera, ce n’è una che gira con un vassoio di panini e vol-au vent. La clientela è scarsa: qualche giostraio sbrancato («‘na volta erano i zingari, mo’ se deve da dì rom», così Fabietto), due o tre maghrebini affaticati, una coppia italiana di mezz’età che spinge i pulsanti senza dirsi una parola. La mattina vengono gli studenti che fanno sega a scuola, il movimento vero c’è di notte. Oltre alle slot che abbiamo visto negli altri due, qui c’è una roulette automatica con limite di vincita a duecento euro e la voce registrata di un croupier che traduce malamente dal francese («non va più») — e c’è anche una consolle dove più tardi si installerà il dee-jay.
Poco più avanti si trova il Royale, che si vanta di essere il primo; razionale, sobrio nell’arredamento anzi astratto, così geometrico e asettico che assomiglia ai locali che si vedevano su Second Life. Ci meravigliamo che sia semivuoto il venerdì e il gestore si giustifica che è ora di cena, e in ogni caso il loro è un target medio-alto, c’è gente che ci perde anche due-tremila euro per volta. «Ha telefonato tu’ madre, te stava a cercà», grida a un ragazzo che tanto medio- alto non sembra; poi si butta a lamentarsi che le macchine restituiscono per legge circa il novanta per cento di quello che inghiottono, del restante dieci lo Stato se ne piglia più della metà, e sul meno di cinque ci deve pagare il comodato d’uso — a lui resta un misero due, due e mezzo.
Con le semplici slot a monetine non si guadagna quasi niente, va un po’ meglio con le Vlt, le video lottery che accettano banconote e carte prepagate, consentono vincite (o perdite) fino a cinquemila euro e col jackpot cumulativo nazionale fissato da un server remoto promettono un colpaccio da due o trecentomila. “264, 460” lampeggia infatti a intermittenza al centro della parete. Un mese fa uno ha vinto diciottomila euro (ma è diventato leggenda, tutte le sale sostengono che è successo da loro). «Ecco, ecco uno di quelli che giocano forte», indica sollevato il gestore all’entrare di un vecchietto pelato, giacca antiquata pied-de-poule; si specchia al vetro della roulette, pigia svogliato un nero
pair et manque, perde subito due euro e se ne va.
Per arginare lo sconforto e il senso di squallore invito Fabietto a cena in una trattoria di pesce; dopo proseguiamo verso l’incrocio col raccordo anulare, dove si favoleggia del nuovo Dubai Palace, il più grande e il più fornito. Arrivando troviamo in effetti un mare di auto, un parcheggio sotterraneo enorme e ben sorvegliato — e una struttura imponente, tutta illuminata d’oro, con lettering arabeggiante e il logo ossessivamente ripetuto della Palma, la famosa penisola artificiale di Dubai. Qui ai grandi saloni delle slot e alla zona roulette
si aggiunge la sala bingo, più un’ala dedicata alle scommesse sportive (calcio internazionale e cavalli); c’è un ampio ristorante con una piattaforma per musica dal vivo, cabaret, sfilate di moda (“eventroom”,lasettimanascorsa un concorso di miss over Cinquanta). Schermi televisivi ovunque, più decorativi che funzionali. «Intrattenimento integrato» ci soffia all’orecchio uno dei proprietari e comincia ad affabulare la propria visione del mondo: era un imprenditore (rimane sul vago, «difesa, telecomunicazioni, biomedicale »), ma adesso nell’industria non ci crede più; al tempo degli scatoloni alla Lehman Brothers se ne andò in Cina e lì si è convinto che l’Europa è destinata a diventare un continente di camerieri — il futuro sta nel business del divertimento. Gli piacerebbe una sala per il texas hold’em e una roulette coi croupier in carne e ossa, ma per quello non ha la licenza; ci mostra dei cartelli (a dire il vero quasi invisibili) con avvertenze sui rischi del gioco d’azzardo, assicura di essere in contatto con un ludopata a cui affidare i casi più pietosi di dipendenza.
Via di nuovo verso l’ultima creatura del gruppo, il Dubai Due dalle parti di Settecamini; qui il parcheggio è ancora in costruzione, troviamo posto per puro bucio, perché uno sta uscendo, è già mezzanotte. Ma traccheggia, non si decide, sicché scendiamo a sollecitare; il guidatore grasso, sulla cinquantina, ha mollato il volante e tiene le mani tra le cosce di una ragazza orientale — non voglio pensar male, magari è la fidanzata (ma Fabietto scettico “si je sganci ‘na piotta quella se fidanza pure co’ tte”). La solita decorazione moresca, all’ingresso una tabaccheria coi peluche e gli ovetti kinder; più che un nido del vizio sembra un autogrill. Tra i tavoli del ristorante (menù pizza quindici euro compresa bevanda), sotto gli occhi famelici di pochi e la stanca distrazione di molti, si esibiscono “Les jeux sont faits”: tre ballerine e un ballerino che hanno perso da tempo la speranza di essere ammirati. Per il venerdì successivo è annunciata l’esibizione di Khaled Jackson “uno dei sette sosia ufficiali di Michael al mondo”. Forse alle tre o alle quattro del mattino l’atmosfera si farà losca, forse accadrà qualcosa di interessante; non ce la faccio ad aspettare, usciamo e non entriamo al Black Jack Café che sta quasi di fronte. Leggiamo solo un cartello sulla porta, “vietato stare in piedi dietro ai giocatori”.
Perché le slot non dipendono dall’abilità, ma solo dal caso, e se la macchInetta è stata troppo avara è più facile statisticamente che poi gratifichi il nuovo arrivato, come i numeri in ritardo alle ruote del lotto. In questo pellegrinaggio che dura da sette ore, quel che mi ha colpito di più non è la trasformazione (segno dei tempi) della progettata ottimistica Tiburtina Valley, polo dell’informatica e dell’innovazione tecnologica, in una deprimente “game valley” di locali che si installano dove stanno chiudendo le falegnamerie, i blockbuster o la Alenia. Non è nemmeno la percezione acuta della crisi, che porta i più disperati ad affidarsi alla sorte, come se un’intera strada potesse funzionare da spropositato gratta-evinci. A colpirmi è stata la sottrazione di responsabilità: i videogame che prevedono un po’ d’azione da parte dei giocatori sono spariti e nelle stesse slot c’è un pulsante “auto” che ti esime dal tirare la leva o spingere i bottoni. Puoi stare a braccia conserte, per minuti e minuti, a fissare catatonico un display che fa tutto da solo; ti spara negli occhi cactus e piramidi, dollari vampiri e prugne, e numeretti che girano. Perfino al bingo, se hai più di sei cartelle e temi di confonderti, puoi affidarti a uno schermo che le controlla per te e ti avverte squillando se hai completato la cinquina. Un popolo di zombie, di zombie gentili che se chiedi qualche informazione ti rispondono riconoscenti: non è ludopatia, è noia, vuoto e rassegnazione. Uomini soli, di tutte le etnie e di tutte le età; coppie di donne anziane che non sanno dove altro passare la serata; famiglie che assistono alla fortuna o sfortuna di papà; giovani innamorati senza fantasia che si baciano quando si illumina una combinazione. Non solo borgatari, direi, né tantomeno solo trasgressivi o disposti ad avventure illegali. Qui c’è l’Italia che Pasolini cantava nelle
Ceneri di Gramsci, ma devitalizzata e privata di identità. Tra un casinò e l’altro, la Tiburtina notturna coi suoi sventramenti, la sua edilizia demente e corrotta, i vetri in frantumi dei negozi alla deriva e delle fabbriche dismesse.