Elena Dusi, la Repubblica 31/3/2013, 31 marzo 2013
L’UOMO CHE VERRA’
Sessant’anni anni fa la nostravita ha preso la forma di una doppia elica. La molecola del Dna apparve davanti agli occhi di James Watson e Francis Crick nel 1953 in un laboratorio di Cambridge, e il 25 aprile di quell’anno la scoperta fu pubblicata su Nature. Oggi alla molecola cheè il fulcro di ogni forma vivente sulla Terra sono affidate molte speranze. Tra quanti hanno visto più lontano di altri c’è lo scienziato americano Craig Venter. Il coautore del sequenziamento del Dna umano, oggi dirige l’Istituto che porta il suo nomee che raccoglie cinquecento studiosi. Tre anni fa annunciò la creazione della prima forma di vita artificiale: un batterio (battezzato Synthia) che vive grazie a un Dna sintetizzato completamente in laboratorio. Non contento delle controversie suscitate in quell’occasione, ci preannuncia una nuova scoperta. Intanto, come sta Synthia? «Bene, stiamo realizzando un nuovo esemplare. Entro l’anno faremo un altro annuncio».
Ci dia un indizio.
«Non posso dirle di più. Ci siamo sempre chiesti se fosse possibile progettare un essere vivente al computer, partendo da zero. Il Dna architettato dal calcolatore poi andrebbe assemblato in laboratorio. E alla fine non resterebbe che vedere se quel genoma fa funzionare un essere vivente.
Una cellula per esempio».
La vita nata dal silicio. E nel frattempo dove è finita Synthia?
«In frigorifero. Per noi rappresentava un esperimento pilota. È stata importante per dimostrare che il metodo funziona, ma era solo un risultato preliminare per passare alla fase successiva».
Immaginiamo di trovare vita su Marte. Si aspetta sia basata sul Dna?
«Tutta la vita, così come la conosciamo, è basata sul Dna. E la composizione chimica dell’universo è simile a quella della Terra. Mi aspetto senz’altro di trovare vita altrove nell’universo. Non credo che sia evoluta come la nostra, perché il percorso dell’uomo ha seguito tappe rapide. Probabilmente sarà solo vita microbica, ma la sua chimica la immagino effettivamente basata sul carbonio e su informazioni contenute e trasmesse
dal Dna».
Quindi sapremmo interpretare una eventuale vita extraterrestre.
«Non sarebbe neanche necessario portare sulla Terra dei campioni di Dna marziano. Organizzare un trasporto simile richiederebbe razzi da miliardi di dollari, noi invece potremmo usare apparecchi per il sequenziamento genetico direttamente su Marte o sul pianeta in questione, per poi spedire le informazioni in forma digitale sulla Terra. A quel punto nulla ci impedirebbe nemmeno di ricreare un marziano in laboratorio».
Sessant’anni fa abbiamo osservato per la prima volta il Dna. Da allora la
sua struttura a doppia elica è diventata l’icona della vita. Riusciremmo a immaginare una forma diversa?
«Non credo che una tripla o quadrupla elica funzionerebbero. E penso che la scienza abbia vissuto negli ultimi sessant’anni il periodo più straordinario dell’umanità. Nel 1953, quando Watson e Crick (anche sulla base dei dati di Rosalind Franklin) pubblicarono lo studio sulla doppia elica, l’idea che il Dna fosse il responsabile dell’eredità genetica non si era ancora affermata del tutto. La scoperta era avvenuta una decina di anni prima, ma non tutti gli scienziati erano convinti. Alcuni credevano che le informazioni biologiche
passassero attraverso le proteine».
Il Dna è stato usato per immagazzinare libri, musica, immagini. Nel genoma di Synthia avete inserito dei passi dell’Ulisse di Joyce. La molecola della vita potrà essere usata come una biblioteca di Alessandria in miniatura?
«La natura usa il Dna da quattro miliardi di anni per immagazzinare informazioni. Il metodo non ha rivali. Il genoma però ha permesso l’evoluzione delle specie viventi attraverso mutazioni che, occasionalmente, creano un cambiamento in un organismo. Per questo è necessario che il Dna non sia completamente stabile e consenta ogni tanto degli errori. Non vorrei che il codice del mio conto in banca fosse conservato in una molecola simile».
La biologia sintetica, ovvero la capacità di creare Dna artificiale in laboratorio, potrà risolvere alcuni dei problemi dell’umanità?
«Ci consentirà di continuare ad avere acqua pulita, nuove fonti di nutrimento ed energia, vaccini, medicine e metodi per riciclare l’anidride carbonica. Abbiamo iniziato dalle alghe. Lavorando sul loro Dna riusciamo a indurle a produrre proteine, acidi grassi omega tre, antiossidanti più potenti degli attuali. Per affrontare il problema dell’inquinamento, possiamo aumentare la capacità delle alghe di catturare anidride carbonica dall’atmosfera, o spingerle a produrre combustibili puliti. Abbiamo allo studio una nuova biologia che ci permetterà di produrre bottiglie di pla-
stica partendo dall’anidride carbonica anziché dal petrolio».
Non avremo più bisogno di agricoltura, pesca o allevamento?
«Fra dieci anni la popolazione mondiale sarà aumentata di un miliardo di persone. Immaginiamo di aggiungere un’altra Cina al nostro pianeta. Ci accorgeremo che non riusciremo a produrre cibo per tutti senza esaurire le risorse naturali. Già gli oceani sono in sofferenza per l’eccesso di pesca. Dobbiamo inventare altre tecniche per nutrirci, altrimenti cancelleremo tutte le altre forme di vita dal pianeta».
Tre anni fa avete avviato una collaborazione da 600 milioni di dollari con Exxon Mobil per produrre biocarburante dalle alghe. I risultati però non sono
stati quelli sperati. Come mai?
«Abbiamo perso tempo a dimostrare quel che poteva essere intuito fin dall’inizio: la quantità di carburante prodotto dalle alghe per via naturale è troppo bassa. La tecnica non diventerà mai economica. Da quando abbiamo iniziato a usare la biologia sintetica per modificare il Dna degli organismi vegetali i passi avanti si stanno vedendo. Siamo riusciti a migliorare l’efficienza tre volte rispetto alla fotosintesi naturale. Abbiamo testato le nostre alghe sia nella serra dell’Istituto sia in alcuni laghetti che abbiamo creato all’aperto».
Una delle applicazioni sta invece rivoluzionando i vaccini.
«Il primo vaccino nato dalla genetica è stato approvato pochi mesi fa in Europa.
Lo ha ottenuto per la Novartis proprio uno scienziato italiano, Rino Rappuoli. Serve a combattere un ceppo di meningite e ci abbiamo lavorato insieme a partire dal 1997. Quell’anno il nostro team completò il sequenziamento del genoma del batterio che causa la malattia, il meningococco B. Usando gli strumenti della bioinformatica, individuammo quali frammenti del genoma sono meno soggetti alla pressione evolutiva. Essendo porzioni di Dna stabili, possono fornire un bersaglio fisso per il farmaco. Rappuoli e i suoi ricercatori hanno creato e testato un vaccino capace di colpire questi bersagli. Per la prima volta nella storia un vaccino è stato prodotto partendo non dal microrganismo responsabile della malattia, ma solo
dalla sequenza del suo Dna. Stiamo applicando la stessa tecnica contro l’influenza. Siamo in grado di produrre un agente immunizzante in meno di dodici ore, mentre con il metodo tradizionale occorrono alcuni mesi».
Allora non è vero che la genetica non è utile alla vita quotidiana.
«Questo dimostra però quanto il tempo sia importante. I passi avanti non avvengono nel giro di una notte. Sono passati quindici anni da quando abbiamo sequenziato il meningococco all’introduzione del farmaco in Europa».
Lei crede che l’eredità genetica conti di più rispetto all’ambiente?
«Lo credo per una cellula, non sono convinto che sia così anche per un essere umano».
Tredici anni fa, quando fu completato il sequenziamento del Dna umano, ci venne promessa una cura per molte malattie. Perché non è avvenuto?
«Alcuni scienziati hanno fatto troppe promesse a quel tempo».
Sequenziati i geni dell’uomo, ci avete detto che c’era da capire il ruolo del Dna non racchiuso nei geni. Poi avete studiato cosa accende e spegne i geni. Ora dite che anche il Dna dei batteri che vivono in simbiosi con noi gioca un ruolo importante per la salute. Non finirete mai di spostare l’asticella più in alto? Non si rischia così di illudere chi ha bisogno di cure?
«Proviamo a pensare ai numeri della vita umana. Cento trilioni di cellule, duecento trilioni di batteri. Possiamo sperare un giorno di reincarnarci in un’ameba o in un batterio, e in questo caso la vita sarebbe più semplice. Ma non credo che l’idea ci tenterebbe. Svelare la complessità è il mestiere della scienza. Se pensiamo ai progressi degli ultimi cento anni c’è da restare stupefatti. Un secolo fa medicina e biologia quasi non esistevano. Oggi più conosciamo, più disponiamo di strumenti per fare progressi. Come si fa a non essere ottimisti?».