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 2013  marzo 30 Sabato calendario

IL SILENZIO DELL’ANIMA VANNINI: “PERCHÉ L’OCCIDENTE HA DIMENTICATO I SUOI MISTICI”

Le poche nozioni che so intorno al misticismo le appresi da Padre Pozzi che incontrai a Lugano alcuni anni fa e mi spiegò in che cosa consisteva la libertà di certe Sante. E le ricavai anche dalle poche volte che vidi Raimon Panikkar che se avesse voluto avrebbe portato nelle piazze più gente di Beppe Grillo. Era commovente sentirli parlare. E mi chiedevo se le parole che pronunciavano li obbligava a una coerenza, a una prassi, a un comportamento in linea con le loro riflessioni. Si può studiare la mistica senza esserne in qualche modo coinvolti, colpiti, iniziati? Simone Weil fu la testimonianza che la mistica non è conoscenza, ma sapienza e che ogni cosa che pensi attorno ad essa è come se la pensassi su di te. È la parola che si fa carne.
Sono alcuni anni che seguo il lavoro di Marco Vannini. I suoi studi sono interamente dedicati alla mistica: alla sua storia, alle differenze che nel suo seno sono intervenute, ai fraintendimenti che l’hanno segnata. L’anno scorso uscirono per Bompiani i Commenti all’Antico Testamento di Meister Eckhart che Vannini ha curato con mirabile competenza. Mentre è di questi giorni Lessico mistico (edito da Le Lettere), una bella, chiara e convincente ricognizione tra le parole che ci servono per accostarci a questo oggetto misterioso che a volte identifichiamo con la religione.
Si può comprendere la mistica senza esserne coinvolti?
«Ciò che chiamo mistica non è come scegliere un settore di ricerca intellettuale. Ma il terreno ove cercare la risposta alla domanda: come conoscere l’anima e Dio. Non credo, perciò, che si possa essere “studiosi di mistica” senza una profonda esigenza religiosa. A volte occorrono anni, a volte un attimo solo, per ottenere quella evangelica rinuncia a se stessi, senza la quale le pagine dei grandi mistici restano un libro chiuso».
A proposito di grandi mistici è centrale, nella sua formazione, Meister Eckhart. È singolare che al suo pensiero si interessarono più che i teologi alcuni grandi filosofi.
«Fu Hegel a vedere nel pensiero di quel maestro medievale il proprio pensiero. Non capiremmo nulla della sua dialettica senza la riflessione di quel grande mistico. D’altra parte, Heidegger confessò alla fine della sua vita, che il pensiero di Eckhart lo aveva occupato a lungo. Se prendiamo la filosofia nel suo senso forte, originario, greco — che non è quello di una professione intellettuale, ma di una scelta di vita — allora è possibile accostarla alla mistica».
A chi pensa?
«Anzitutto a Platone e al platonismo che rappresentano il “luogo mistico” per eccellenza. Ma poi, in ogni vero filosofo si scopre il riferimento a quella dimensione del profondo dell’anima in cui il mistico abita. E penso a Wittgenstein, cui infatti dedicai la mia tesi di laurea. La mistica è il terreno della riservatezza, del silenzio, e non ha nulla in comune con quel parlare invano che è la teologia. Purtroppo la mistica in Occidente è stata prevalentemente tenuta sotto il controllo della istituzione ecclesiastica. Il mistico che si rivolge all’assoluto senza mediazione alcuna è stato spesso oggetto di censura e di condanna da parte della Chiesa».
La mistica in occidente è stata soprattutto un affare interno allo scontro teologico, mentre in Oriente ha puntato all’affinamento delle tecniche del pensiero. La convince questa distinzione?
«L’Oriente, ovvero essenzialmente l’India, privo del controllo dogmatico, ha sviluppato una ricerca per certi aspetti più libera. Ma l’utilizzo di una serie di tecniche per la meditazione ha rappresentato un limite ».
In che senso?
«Dove c’è un primato della tecnica lì c’è uno scopo, un “perché” e dove c’è un perché la libertà dell’intelligenza è finita. Cifra essenziale del mistico è infatti essere “senza perché”, come Dio, e come la “rosa” dei celebri versi di Silesius, su cui ha riflettuto anche Heidegger. Da ciò anche la delusione che spesso esperimentano quegli occidentali che, non trovando nel cristianesimo soddisfazione alle loro esigenze di verità e profondità, si sono rivolti all’Oriente. In realtà l’Occidente custodisce tesori di intelligenza spirituale, solo che sono stati spesso ricoperti dall’incomprensione e dal dogmatismo del potere».
Contro questa incomprensione reagirono nel Novecento due figure come Simone Weil e Etty Hillesum. Perché in loro fu fondamentale la relazione con il mistico?
«Per l’esigenza di verità che le animò e
per l’onestà della loro ricerca che fu prima di tutto onestà di vita. Il loro esser donne le aiutò e, non a caso, la storia della mistica è costellata di figure straordinarie di donne, dal momento che amore, abnegazione, distacco sono (almeno così si diceva) caratteristiche tipicamente femminili».
Che cos’hanno in più queste tre parole?
«Sono tutte e tre contenute nei testi che possiamo prendere a fondamento: il Convito di Platone e il Vangelo — ultima espressione del genio greco scrisse la Weil — , esprimono con sfumature diverse la stessa realtà. Aggiungerei una quarta parola che è beatitudine. Perché l’esito della vita mistica non è né il piacere né la felicità, che dipendono dalle circostanze, ma la beatitudine appunto».
Non è un traguardo per pochi?
«Per tutti coloro che sanno affrontare il cammino. Un cammino verso le beatitudini evangeliche ma anche verso quella beatitudine con cui, insieme alla salvezza, Spinoza conclude la sua Etica».
Parole come “beatitudine”, “salvezza” non promettono la realizzazione dell’irrealizzabile?
«Se teniamo presente il legame indissolubile tra beatitudine e salvezza, ci appare fuorviante ogni utilizzazione del termine mistica al di fuori del campo suo proprio, che è quello spirituale. La politica e perfino il mondo del web oggi sono stati in certi casi attraversati dalla mistica. Ma io direi di mantenere il significato delle parole nell’ambito rigorosamente loro proprio, per evitare la confusione del linguaggio, che è poi la confusione del pensiero».
Viviamo una crisi materiale e spirituale senza precedenti. La gente chiede giustizia e non solo diritto. La mistica ha ben presente la distinzione. Ma la giustizia che invoca la mistica non rischia di essere l’irrealizzabile utopia del cuore? In altre parole non ritiene che il limite della mistica sia di essere fuori dalla storia?
«È stata Simone Weil a ricordarci che giustizia e diritto non sono parenti stretti, giacché il diritto si fonda sulla forza. E quanto al praticare la giustizia non ritengo sia un’utopia ma, come insegna Eckhart, un modo di
essere
nella verità. Senza pretendere affatto di instaurare regni di Dio su questa terra, il mistico sta dunque nel mondo ed opera in esso».
Ammetterà che ci sono esempi nella storia di personaggi che nel nome della purezza e della verità della giustizia hanno compiuto orrori e misfatti. Non vede il rischio?
«Sarei uno sciocco se non lo vedessi. Ma, appunto, “essere la giustizia” non significa arrogarsi un arbitrario ruolo di legislatore, né parlare in nome di un qualche presunto Dio. Significa invece spogliarsi della propria egoità. La giustizia legata al proprio Io scatena le paranoie peggiori e crea i mostri teologici che la storia ha conosciuto: Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot».
È molto difficile spogliarsi del proprio Io. E quando ciò avvenisse non si è automaticamente fuori dalla storia?
«È difficile, certo, liberarsene. Ma tutt’altro che impossibile. E poi nella storia ci si sta comunque. Francesco d’Assisi, per fare un esempio che è tornato alla nostra attenzione, non è stato nella storia? Non continua ad esserci? I grandi mistici sono stati anche uomini e donne di azione. Dove cerchi Etty Hillesum se non nella tragedia storica di Auschwitz? La contemplazione non nega l’azione. E il vero mistico è colui che rischia più di tutti».