Alessandro Penati, la Repubblica 30/3/2013, 30 marzo 2013
POPOLARI, GLI ERRORI DELLA BANCA D’ITALIA
LA CRISI finanziaria ha imposto alle banche di ridurre la leva: per ogni livello di patrimonio, possono erogare meno prestiti e assumersi rischi minori. Quelle italiane devono anche sopportare l’onere delle maggiori sofferenze che la recessione comporta; e sostenere un più elevato costo della raccolta (il “rischio Italia”). Quindi, hanno bisogno di capitali. Da qui, il rinnovato dibattito sulle Fondazioni: avendo i patrimoni investiti in titoli bancari che hanno perso in media l’80%, non dispongono più di capitali adeguati a sostenere le banche, né vogliono abdicare al ruolo di socio di riferimento.
C’è però un altro problema: la governance delle banche popolari, che detengono un quinto delle attività del sistema. Il voto capitario (un voto a prescindere dalle azioni detenute) ostacola l’accesso al mercato dei capitali. E, rendendo la proprietà non contendibile, rende anche il management autoreferenziale.
Il voto capitario è retaggio dell’origine cooperativa e dovrebbe assicurare che la banca sia gestita nell’interesse esclusivo di clienti e dipendenti, in quanto soci; e che nessun azionista possa far prevalere i propri interessi su quelli comuni. Ideale con un numero limitato di soci, concentrati sul territorio. Va bene quindi per il credito cooperativo e le piccole banche locali; ma non ha senso per banche nazionali e quotate in Borsa.
Un limite che diventa oggi un costo per il Paese, ma che trova un sostegno bipartisan in politica: persino il Decreto Sviluppo del 2012 non va oltre qualche impercettibile cambiamento nei limiti al diritto di voto e al possesso azionario. Pure Banca d’Italia, per bocca del Vice Direttore Generale, ha di recente reiterato il ruolo «rilevante [...] al servizio dell’innovazione e della crescita delle imprese nel nostro Paese» delle banche popolari, e la loro capacità di «coltivare relazioni di lungo periodo con la clientela » e «favorire la patrimonializzazione delle imprese».
Non è così alla prova dei fatti. Se prendiamo le prime quattro popolari (Bpm, Popolare, Ubi, e Bper), in Borsa hanno perso in media l’84% dai loro massimi, esattamente quanto le maggiori Spa (Unicredit, Intesa, Mps, Carige) che hanno le Fondazioni come socio di riferimento: evidentemente gli investitori non vedono differenze. E hanno ragione. Queste banche operano con una leva quasi identica alle Spa (attività pari a 14 volte il patrimonio in media negli ultimi 5 anni). Hanno una struttura di finanziamento dei prestiti simile (un rapporto depositi/prestiti di 62% contro 59%); simili livelli di produttività (un rapporto commissioni/costo del lavoro di 84% contro 87%); e identica (a parte Mps) capacità di valutare i rischi (le rettifiche assorbono il 66% del margine di interesse in media per entrambi i gruppi). Il radicamento territoriale è quindi solo un pretesto che non deve più essere usato per rifiutare la trasformazione in Spa, cruciale almeno per le grandi popolari.
E’ una buona notizia, dunque, che Bpm intenda abbandonare la governance da popolare. Ma solo in parte. Il Fondo BI-Invest di Bonomi (il quale farebbe bene a dimettersi dal consiglio di Rcs, che sta negoziando la ristrutturazione del debito anche con Bpm, di cui è presidente) ha acquisito il controllo di fatto a fine 2011 con un piccolo investimento (84 milioni il valore del suo 8,6% ai prezzi dell’aumento) sfruttando proprio la necessità di un maxi aumento della banca e la sua difficoltà di accedere al mercato dei capitali. Insediato al vertice, cambia la popolare in Spa facilitando così la futura monetizzazione del suo investimento, e sostenendo il prezzo del titolo grazie alla sua acquisita contendibilità. Congratulazioni. Ma sarebbe stato meglio (l’avevo suggerito a suo tempo) che la Banca d’Italia avesse imposto la trasformazione in Spa come condizione per l’aumento di capitale richiesto: avrebbe facilitato l’ingresso di un socio stabile, magari una fusione, e assegnato il premio di controllo a chi era disposto a pagare per il 51%, non l’8,6%.
Meglio se la trasformazione in Spa delle popolari fosse il risultato della volontà di ristrutturare il nostro sistema bancario, piuttosto che del legittimo interesse di un
private equity di assicurarsi un profitto elevato.