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 2013  aprile 02 Martedì calendario

A QUEL BAMBINO SOLDATO RUBATA LA COSCIENZA

Non mi esce dalla testa, la foto del bambino-soldato di Aleppo pubblicata su questo giornale il giorno di Pasqua. È una foto memorabile.
Può darsi che il bambino, intervistato, esageri, si presenti più terribile di quel che è. Lui sa di avere un mercato, e vuol vendersi. Perciò lasciamo perdere quel che dice, guardiamo come ci appare.
Gli inviati dicono che ha 8 anni. È un ribelle siriano, contro Assad. Prima di scrivere ’ribelle’ avevo scritto ’soldato’, poi ho cancellato ’soldato’, perché ’soldato’ mi sembra un termine istituzionale, richiama l’esercito, e qui non c’è esercito, richiama l’uniforme, e qui non c’è uniforme. Questi sono ribelli o insorti, il che non significa che siano contro il Diritto, perché succede a volte che l’esercito sia nel torto e i ribelli siano nel giusto. Ma ’soldato’ vuol dire ’al soldo’, e questo bambino con ogni probabilità è armato e spara perché lo pagano. Indossa una tuta color rosso vivo, rosso Ferrari, e questo è quanto di più bambinesco e anti-militare si possa immaginare, perché la tuta dovrebbe mimetizzarti, infatti si chiama anche ’tuta mimetica’, mentre questa, così sgargiante, richiama l’occhio del nemico e fa di te un bersaglio. Mi domando perché questo pacchiano errore. Pare quasi che questo bambino non abbia il problema di esser visto dai nemici, ma dai suoi: il pericolo è che i suoi gli sparino addosso, perciò questa visibilità. È in primo piano, viene verso di noi. Ha un kalashnikov a tracolla, l’arma gli pende sul petto, di traverso da destra a sinistra. Il caricatore è inserito. La mano destra del bambino sta sul fondo del calcio, la mano sinistra tiene fra le dita una sigaretta accesa, la bocca non si vede perché è velata da un’onda di fumo, che è la boccata appena emessa. Ha lo sguardo velato, sembra felice, come se dicesse: «Ho tutto quel che mi serve». Lo sfondo alle sue spalle è composto di macerie, forse un edificio esploso e sgretolato. Le macerie spiegano questa figura in primo piano. Ci sono tanti bambini come questo, bambini-soldati, in genere hanno qualche anno in più, ma insomma questo li rappresenta. Se fossimo di fronte a questo bambino-armato e lo vedessimo avanzare, non sapremmo come fermarlo. Parlargli non si può, ragionare nemmeno. Viene per uccidere o morire. Non ha la minima idea di cosa voglia dire, ma lo sa fare. Lo guardo e penso a tre cose: i cani d’assalto di Kurosawa, i delfini addestrati dalla Marina Militare di alcuni Stati, il cognac per i soldati in trincea. Nel film Sogni Akira Kurosawa mette un protagonista davanti a un cane: lui vorrebbe passare, ma il cane ringhia e ha intorno al collo una cintura di bombe a mano.
Evitarlo non puoi, sparargli nemmeno, perché esploderebbe: il cane è programmato per morire e ammazzare. Non conosco quest’uso dei cani­bomba nell’esercito giapponese, ma mi sembrano cani d’assalto: se vengono ad assalirti, tu e i tuoi non avete scampo, perché il cane-bomba non è un soldato e non è un animale, è una macchina. Nelle nostre trincee (e in quelle nemiche) si trasformavano i soldati in macchine togliendogli la coscienza col cognac: quando arrivavano botti di cognac, e l’odore del cognac si diffondeva dappertutto, quello era il segnale che di lì a poco tutti scattavano fuori per uccidere o morire. Non ho mai visto la foto di qualche soldato ubriaco di cognac mentre salta fuori dalla trincea, ma penso che avesse lo sguardo come questo bambino: offuscato e impenetrabile, un fondo vuoto, senz’anima. I delfini sono animali giocosi, quando vedono una nave l’istinto li porta a nuotarle intorno, avanti-indietro. In guerra, alcune Marine Militari mettono collari di mine indosso ai delfini, al largo dei porti nemici: la speranza è che quando le navi nemiche prendono il largo, esplodano.
Bambini-cani-delfini sono soldati perfetti. Perché non hanno coscienza. Per fare di un uomo un soldato devi togliergli la coscienza, per rifarlo uomo devi ridargliela.