Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 30/03/2013, 30 marzo 2013
GRATTACIELI, RISTORANTI, SHOPPING MALL. E’ IL BOOM DEL KURDISTAN IRACHENO —
Uno Stato nello Stato. Solo formalmente provincia irachena, ma de facto Paese separato e del tutto indipendente: con il suo parlamento, il suo esercito ben armato, la sua bandiera, la sua lingua, la propria economia totalmente autonoma, persino per quello che riguarda i pozzi petroliferi, a costo di entrare in guerra con il governo centrale. «Benvenuto in Kurdistan. Non si preoccupi per il rinnovo del visto. Da noi siamo molto più flessibili che a Bagdad. Abbiamo regole diverse», dicono sorridenti i peshmerga in divisa con il mitra a tracolla che controllano i passaporti al terminal una decina di chilometri prima di Erbil. Lo chiamano check point, in verità è una vera frontiera, facile da transitare per curdi e cittadini stranieri, specie se occidentali, molto più restrittiva per gli arabi iracheni, che necessitano di una lettera di invito o di un lasciapassare valido. Altrimenti nulla. Durante il viaggio in auto dalla Bagdad ancora scossa dalla catena di attentati sanguinosi in concomitanza del decennale dell’inizio dell’invasione voluta da Washington abbiamo visto numerosi sciiti e sunniti residenti nel centro-sud venire fermati e rimandati indietro.
La provincia autonoma del Kurdistan è un mondo a parte. Il cuore pulsante delle nuove speranze curde: polo di attrazione per i curdi siriani, centro commerciale per quelli in Turchia, esempio di autogoverno per i fratelli in Iran. Un fiorire di energie e speranze che si nota già alle formalità di entrata. L’aeroporto internazionale di Erbil, costruito per lo più da compagnie turche, è un modello di efficienza. Arrivando via terra dall’Iraq la separatezza curda appare ancora più stridente. Sino alle zone contese, dove sono i giacimenti di petrolio e gas a Mosul e Kirkuk, prevalgono ancora le rovine della guerra, i mercatini poveri, gli edifici cadenti, sporcizia ovunque e la presenza ossessiva dei posti di blocco voluti dal governo di Nouri Al Maliki per combattere il terrorismo. Ma poi la periferia di Erbil accoglie con la foresta di gru, scavi a cielo aperto, impalcature, grattacieli luccicanti di vetrate e marmi di Carrara. È tutto un fermento di cantieri, iniziative nuove, petrodollari investiti con la convinzione di un futuro di prosperità. Le strade ampie sono pulite, ordinate. I cartelli stradali (importati in larga parte dall’Italia) sono in curdo e inglese. Qui tutti ringraziano gli americani per aver eliminato Saddam Hussein. «Magari potevano fare meglio. Ma grazie, grazie America. Peccato che Barack Obama abbia ritirato troppo presto la sue truppe», dichiarano festosi.
Fioriscono ristoranti, centri commerciali, negozi di lusso. La zona cristiana di Einkawa sino a una quindicina di anni fa era un paesino sottosviluppato e sonnolento sperso tra campi di grano, oggi è il quartiere più dinamico di Erbil, dove hanno i loro uffici centrali per tutto l’Iraq una cinquantina di compagnie petrolifere straniere, si moltiplicano le rivendite di vini pregiati importati da Italia, Francia, California, e i ristoranti raffinati fanno arrivare i prodotti freschi quotidianamente via aerea da Istanbul. Ancora al tempo dell’attacco Usa nel 2003 il terreno si vendeva per 10 dollari al metro quadro, adesso fluttua tra 2.000 e 3.000. Vi hanno comprato casa tanti degli oltre 150.000 cristiani fuggiti dalla Bagdad lacerata dalla guerra di religione. «La grande maggioranza ha venduto abitazione e proprietà. È qui per rifarsi una vita», conferma l’arcivescovo caldeo, il 44enne Bashar Warda, che a sua volta trovò a rifugio a Erbil dopo i sei gravissimi attentati nelle chiese di Bagdad il primo agosto 2004. Particolarmente in questa zona crescono come funghi i locali con l’accesso gratuito a internet e operano le tassiste della compagnia Pnk: autiste rigorosamente donne per le imprenditrici che arrivano dall’estero e si lamentano per le attenzioni troppo insistenti dei tassisti maschi. Un’isola sofisticata, legata ai grandi circuiti del business internazionale. Lo dimostrano i giganteschi centri commerciali esplosi negli ultimi cinque anni. Si chiamano Rehin, Hawler, Maxi, Majid, Family Mall, dove trovi MacDonald, ma anche Benetton, Timberland, Valentino, sushi bar, parchi giochi robotizzati e le ultime novità nel campo dell’informatica. Sono le manifestazioni più visibili del boom economico in una regione che vede tassi annuali di crescita superiori alla Cina di qualche anno fa.
Ci vivono quasi cinque milioni di curdi sotto la guida molto paternalistica del primo ministro Massud Barzani. Un leader alla ribalta. Il suo antico partner-rivale, l’attuale presidente iracheno Jalal Talabani è malato, ricoverato all’estero. Talabani avrebbe voluto facilitare l’integrazione curda nel nuovo Iraq democratico. «Ma ha fallito. Oggi il suo Puk (Partito Unitario Curdo) appare in caduta libera. Mentre guadagna consensi il Pdk (Partito Democratico Curdo) di Barzani. A lui guardano anche i tre milioni di curdi residenti della Siria sud-orientale, i quali vedono con paura la diffusione di una teocrazia islamica sunnita estremista sulle ceneri della dittatura di Bashar Assad», afferma Salwan Zaito, direttore del Babylon, tra le nuove società proprietarie di radio e televisioni locali. Un periodo di eccitanti aspettative per i curdi iracheni. Schiacciati, massacrati dalla repressione di Saddam Hussein negli anni Ottanta e al tempo della prima guerra del Golfo nel 1991, cominciarono a prosperare sotto l’ombrello delle forze americane. E oggi potrebbero diventare la culla del rilancio delle antiche utopie di unificazione con i 7 milioni di curdi in Iran e quasi 10 in Turchia. In tutto quasi 25 milioni di persone, discendenti di quel popolo che dalla fine della Prima Guerra Mondiale si percepisce come tradito dalle promesse non mantenute della comunità internazionale per un grande Stato curdo indipendente.
Non stupisce a che a Erbil si seguano con interesse e apprensione i recenti accordi tra il leader del Partito dei Lavoratori Curdi (Pkk), Abdullah Ocalan, e il premier turco Recep Tayyip Erdogan. La Turchia infatti è nemica storica dei nazionalisti curdi al suo interno, ma oggi è anche il maggior partner commerciale con il Kurdistan iracheno. È tra l’altro grazie agli oleodotti turchi che Erbil esporta il proprio greggio all’estero in barba ai divieti del governo Maliki. «Solo un buon rapporto con Ankara ci garantirà la forza di resistere alle pressioni di Bagdad. Guai a rompere con Erdogan», mette in allarme Bakir Ahmad, giornalista della Pna, l’agenzia stampa legata a Barzani. La conclusione è ovvia: «Un giorno il Kurdistan iracheno sarà certamente indipendente. E potrebbe anche allargarsi ad altre regioni curde. Ma non ora, sarebbe troppo presto. Persino i curdi siriani dovranno prima negoziare la loro autonomia con Damasco. La gradualità è necessaria. Ogni passo affrettato rischia di farci ricadere alle tragedie di venti o trenta anni fa».
Lorenzo Cremonesi