Sergio Rizzo, Corriere della Sera 30/03/2013, 30 marzo 2013
VIA L’AVVOCATO, C’E’ IL DISOCCUPATO. LOBBY DIMEZZATE IN PARLAMENTO —
Chi dice che la politica è sempre più distante dalla realtà di un Paese sempre più povero e nel quale la disoccupazione galoppa, non deve aver scorso con la dovuta attenzione l’elenco dei nuovi arrivati in Parlamento. Lì ce ne sono almeno due che quando gli è stato chiesto di compilare la casella della voce «professione» hanno scritto: «disoccupato». Disoccupato! Nell’elenco dei mestieri dei parlamentari avevamo visto di tutto: mai però quella parola. Tanto che non figura nemmeno fra le opzioni possibili. Eppure Vilma Moronese, quarantenne grillina di Santa Maria Capua Vetere, entrando a palazzo Madama non ha esitato a dichiararsi «disoccupata». Idem il ventinovenne Gianluca Rizzo il quale, forte dello straordinario successo ottenuto alle parlamentarie via web del Movimento 5 stelle, dov’è risultato quarto dei più votati candidati in Calabria con ben 54 (cinquantaquattro) voti, ha ora un seggio alla Camera. Accanto alla sua collega venticinquenne Chiara Di Benedetto, che alla domanda «qual è la sua attività lavorativa?» ha replicato risoluta: «parlamentare». Risposta cristallina. Di sicuro meno vaga rispetto alla definizione assolutamente originale della propria occupazione fornita agli uffici della Camera alta dalla senatrice cittadina Daniela Donno, cinquantatreenne leccese che ha fatto mille lavori dai quali ha ricavato una sola certezza: quella di essere «precario».
Questo per far capire quanto lo sbarco dei grillini abbia contribuito a cambiare la geografia sociale di Camera e Senato. L’esperienza, è vero, ci dice che ai nostri onorevoli la fantasia non difetta. Prendete il fondatore della Lega Nord Umberto Bossi, senatore, deputato e ministro. Varcando nel 1987 il portone di palazzo Madama, allora novizio al pari della cittadina «disoccupata» Moronese, si dichiarò «imprenditore». Traslocando alla Camera, la sua professione divenne quella di «tecnico elettronico applicato alla medicina». Finché oggi, a metamorfosi completata, sintetizza così le sue note caratteristiche: «Liceo scientifico, giornalista».
Solo parole, direte. Già. Quando però le parole si traducono in numeri, soprattutto a fronte di professioni che non si prestano a essere tanto creativamente interpretate, il loro significato diventa molto più chiaro. È noto, per esempio, che nel Parlamento italiano la figura più rappresentata è sempre stata quella dell’avvocato. Questo per molte ragioni, non esclusa la più rilevante: la mancanza di una regola che vieta, come negli Stati Uniti, di avere altri redditi da attività diverse rispetto a quella di parlamentare. Ecco perciò che già nel primo Parlamento unitario del 1861, come racconta Ferdinando Petruccelli della Gattina, uno che c’era, nel suo meraviglioso «I moribondi del Palazzo di Carignano», gli avvocati erano ben 135 su 438 deputati. Il 30,8 per cento. Fino a qualche settimana fa ne avevamo ancora 137, ed erano la categoria più numerosa con il 14,4 per cento dei 949 fra deputati e senatori, compresi quelli a vita. Oggi gli esponenti di quella lobby potentissima non sono che 68, ed arrivano appena al 7,1 per cento. Differenza non da poco, se si considera che grazie al loro numero hanno sempre controllato le commissioni Giustizia di Camera e Senato, dove si fanno le leggi sui processi, sui tribunali, sulle procedure civile e penali, sulle riforme dei codici. Tutto questo, ora, sarà decisamente più difficile. Qualcuno obietterà che ciò potrebbe comportare un impoverimento delle competenze in materia legislativa. Vero: ma si ridurrà anche il rischio di potenziali conflitti d’interessi, visto che non si è introdotto per i parlamentari il divieto a svolgere altre professioni durante il mandato. Per dare un’idea delle perdite subite da questa categoria, basta ricordare che non sono più parlamentari l’ex presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno, oltre a Giuseppe Consolo (uno dei deputati che denunciava i redditi più elevati), Manlio Contento, Enrico La Loggia, Fabio Granata, Maurizio Paniz, Gaetano Pecorella, Enzo Bianco, Tiziano Treu... Ma anche Nicola Cosentino, Marco Milanese, Matteo Brigandì. E Isabella Bertolini, Maria Teresa Armosino... Per non parlare di personaggi del calibro di Roberto Maroni o Antonio Di Pietro, ex pm diventato avvocato. Inutile dire che il flop dell’uomo simbolo di Mani pulite ha accentuato la reso ancora più pesante l’indebolimento del fronte dei magistrati, il cui numero si è ridotto da 13 a sette.
La medesima emorragia ha colpito gli imprenditori, categoria che era letteralmente esplosa dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Da 121 che erano fino al 25 febbraio scorso, si sono ridotti a 62. Qualche nome di chi ha preferito o dovuto restare a casa? Massimo Calearo, Giuseppe Ciarrapico, Amato Berardi, Francesco Divella, Daniele Toto...
E i medici? Non si sono salvati neppure loro: da 56 sono passati a 32. Sarà complicato egemonizzare come fatto finora le commissioni Sanità dei due rami del parlamento. Fuoriuscite eccellenti, quelle di Roberto Antonione, Michele Pisacane, Domenico Zinzi... Nonché Antonio Gaglione, famoso cardiologo eletto nel 2008 con il Partito democratico e poi passato in rapida successione a Lega Sud, Noi Sud e iniziativa liberale. Intervistato nel 2009 da Monica Guerzoni del Corriere, accusò: «Stare in Parlamento è un lavoro frustrante, una perdita di tempo e una violenza contro la persona». Coerentemente, è passato alla storia come il recordman dei deputati assenteisti.
Ancora. Dopo i medici, gli avvocati, gli imprenditori, ci sono anche meno giornalisti. Da 95 sono scesi a 40, Bossi compreso. Le new entry come quelle di Massimo Mucchetti, Corradino Mineo, Rosaria Capacchione, Augusto Minzolini, Roberto Formigoni (c’è anche lui fra i giornalisti) non hanno compensato le ben più numerose uscite di scena (Furio Colombo, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Walter Veltroni, Paolo Guzzanti, Ricardo Franco Levi, Giancarlo Mazzuca, Fiamma Nirenstein, Francesco Pionati, Piero Testoni, Giorgio Stracquadanio...). Ma ci sono anche meno docenti universitari, passati da 76 a 42, e meno insegnanti, scesi da 52 a 28. Del resto, in un Parlamento con molti più giovani e molte più donne, è pure diminuito il numero dei laureati. Tenendo conto anche delle lauree triennali e dei senatori a vita, erano 663: il 69,7 per cento del totale. Adesso sono 645, ovvero il 67,9 per cento. Ancora meno. E questa, decisamente, non è una buona notizia.
Sergio Rizzo