Marco Romani, il Venerdì 29/3/2013, 29 marzo 2013
ARCHISTAR IO? ANDIAMOCI PIANO CON GLI INSULTI
VENEZIA. Architetto, tra pochi giorni sono settanta... «Chi glielo ha detto?». Beh, su Wikipedia c’è scritto che è nato il primo aprile 1943. «Maledetto internet. E comunque stavo meglio quando ne avevo sessanta». Completo total black, con la testa piena di riccioli bianchi, Mario Botta glissa sul suo prossimo compleanno e più che del passato ha voglia di parlare dei progetti che sta realizzando in tutto il mondo, solo in Cina ha parecchi cantieri aperti, e di quelli appena conclusi, come l’ampliamento della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Che, fatalmente, lo riporta alla sua giovinezza.
Nato a Mendrisio, in Canton Ticino, è in Laguna che ha studiato architettura, laureandosi nel 1969 con relatori Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol. «La Fondazione, con la sua biblioteca pubblica aperta fino a notte fonda, è sempre stato il luogo dove incontravo i miei amici. Per me, poi, ha sempre avuto un significato particolare perché la ristrutturazione del piano terra e del giardino che Scarpa, sotto la direzione di Mazzariol, realizzò all’inizio degli anni Sessanta, è uno dei capolavori architettonici dell’epoca». E da lì Botta è partito per progettare i nuovi spazi, un intervento che è stato possibile grazie alle acquisizioni di edifici e capannoni che circondavano il palazzo cinquecentesco. Suoi sono l’entrata, più ampia, su Campo Santa Maria Formosa, un auditorium da 132 posti, la creazione di un grande atrio (nato dall’unione di due piccoli campielli interni di età medievale) su cui si affacciano caffetteria, biglietteria e bookshop, sovrastato da un velario metallico che, dice Botta, «porta all’interno del palazzo una luce simile a quella che si riflette nell’acqua dei canali. Stavolta però si propaga dall’alto».
Sono vent’anni che lavora alla Querini Stampalia...
«I primi interventi risalgono al 1993 e in questi giorni inauguriamo gli ultimi spazi realizzati. Nel tempo questa struttura si è potenziata ed è diventata una sorta di Beaubourg alla veneziana: c’è la biblioteca, il museo con una straordinaria Presentazione al Tempio di Giovanni Bellini, la caffetteria, l’auditorium, una libreria che vende anche oggetti di design. Qui ho agito come un medico condotto: man mano che venivano acquisiti nuovi spazi attigui al palazzo cinquecentesco venivo chiamato per gestire l’emergenza e ogni volta ho cercato di cucire insieme parti eterogenee. Non c’è stato un progetto iniziale, c’è solo quello finale».
Strano modo di lavorare.
«È vero, ma mi sono sentito lo strumento di una collettività che cresce. Questa ricucitura urbana, una sorta di cittadella calda all’interno della città, ha per me un grande valore culturale, e quindi politico e sociale, perché è un progetto duraturo che offre una nuova occasione di studio e di incontro. Un progetto ben lontano dalla cultura dell’effimero e dagli eventi del carnevale».
È stato difficile portare l’architettura contemporanea in pieno centro storico veneziano?
«Io ho voluto evitare il falso storico che troppo spesso domina a Venezia e che viene richiesto come reazione alla cattiva architettura del recente passato. Diceva Karl Kraus ai conservatori: la vecchia e bella Vienna un tempo fu nuova. Ecco, anch’io credo che la testimonianza del contemporaneo sia l’unico modo per rispettare il passato. Il problema, semmai, è quello della misura: essere moderni non significa progettare un obbrobrio come il grattacielo di Pierre Cardin. Io ho agito con moderazione e sobrietà, senza creare un luna park. Questo mio lavoro è, in fondo, no global perché cerca nella storia gli anticorpi all’ubriacatura dei consumi globalizzati».
Ristrutturare e «ricucire» dà la stessa soddisfazione di creare opere dal nulla come le è accaduto, per esempio, per il Museo di arte contemporanea di San Francisco?
«Come diceva Le Corbusier, il primo atto del progetto è la lettura critica del contesto. Il Moma di San Francisco nasce in opposizione al linguaggio muto di quell’area della città, con palazzi tutti uguali che non raccontano cosa c’è dentro. Anche là, quindi, è stato il contesto a determinare le leggi e i linguaggi. Proprio come alla Querini Stampalia».
Quindi lei non progetta partendo da una forma che ha già in mente?
«Mai. Inizio interrogando il contesto storico e la geografia del luogo. L’architettura è sempre lo specchio della storia e della società in cui nasce. Non possiamo illuderci di avere una città bella se la società è perversa e ghettizzante. L’architetto non crea un bel niente, dà forma piuttosto alle esigenze della collettività. Se è bravo, poi, riesce a tirar fuori anche le aspirazioni nascoste. Tutto qua».
E adesso chi glielo dice ai suoi colleghi archistar che credono di plasmare il mondo?
«La parola archistar, oltre che un insulto, è una contraddizione in termini. Io non conosco una buona architettura con un cattivo committente. E per committente non intendo soltanto chi fisicamente tira fuori i soldi (un governo, un’azienda o un privato) ma la collettività nel suo complesso, con le sue spinte e le sue contraddizioni».
E l’autonomia del genio, la creatività, il libero arbitrio?
«Le faccio solo un esempio. Anche volendo non si riesce a spostare le opere di Antoni Gaudí di dieci anni in avanti o indietro. E se il più grande creativo, e il più grande eversivo, del XX secolo è figlio del suo tempo, si immagini noi poveri cristi».
Perché negli ultimi anni, e in tutto il mondo, sono stati costruiti musei straordinari mentre le case, dove la gente vive, sono sempre di pessima qualità?
«Il proliferare, dagli anni Sessanta a oggi, di musei di tutti i tipi è una risposta alla fragilità della società. Una collettività forte non avrebbe bisogno di luoghi deputati per trasmettere i valori. Le grandi opere architettoniche di questo tipo mettono quindi in pace la cattiva coscienza della società. Una buona società democratica dovrebbe invece pensare a costruire belle strade, belle scuole, belle case. Ma se si lascia la città in balia della speculazione edilizia e del massimo profitto come si può pensare che il palazzinaro di turno abbia interesse a creare degli spazi pensati per la vita pubblica. Quando è nata l’ultima piazza? E l’ultimo viale alberato?».
Lei sostiene che le città stanno per morire. È finito il loro ciclo storico?
«No, anzi. Basta vedere la pressione dei contadini cinesi verso la metropoli per capire che esercita ancora un’attrazione senza pari. Penso però che le città, in tutto il mondo, sono in crisi perché hanno perso i due elementi che da millenni le caratterizzano: il centro e il limite. Oggi le metropoli hanno più centri (amministrativi, commerciali, religiosi, politici) e soprattutto a causa dell’espansione continua hanno perso il loro limite. Ho una foto satellitare di Milano in cui si vede che ormai si estende come una macchia informe fino alla mia Mendrisio: dall’alto capisci il dramma della metropoli continua in cui il cittadino non sente alcun senso di appartenenza».
Perché progetta tante chiese?
«Se potessi realizzerei solo chiese, sinagoghe o moschee. È attraverso la costruzione dello spazio del sacro che ho trovato le ragioni più profonde dell’architettura: senso di gravità, della soglia, della luce. E senso del mio ruolo. Anche in una società secolarizzata non possiamo mica avere solo supermercati».
Marco Romani