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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

IL SOGNO (FALLITO) DI ROMPERE UN TABU’

«Oh, ragassi, possiamo mica rimettere il dentifricio nel tubetto!» Potete scommettere che Pier Luigi Bersani, mentre si arrovellava nei dubbi tenendo in sospeso il Quirinale e l’Italia intera, è stato colto dal pensiero di quella metafora che non si sa più se fosse sua o di Maurizio Crozza: come poteva, dopo essersi giocato tutto sui grillini e il no al Pdl, fare retromarcia rimettendo il dentifricio nel tubetto?
E così, dopo le «convergenze parallele», le «astensioni incrociate», le «maggioranze variabili» e i «disaccordi concordati», sopraffine architetture della prima Repubblica che avvolgevano qualunque cosa in una nuvola di vaporosa impalpabilità, quella che avrebbe dovuto essere nelle speranze democratiche l’era post-berlusconiana, si apre con una «non rinuncia» da non dimissionario dovuta ad esplorazioni «non risolutive». Dove il segretario pd, scurissimo in volto, spiega di avere sì fallito nel suo progetto davanti ostacoli insormontabili ma precisa che non molla e ripassa la palla a Giorgio Napolitano: veda cosa può fare lui. Argomentazione che appare ispirata ad una delle canzoni dell’adorato Vasco Rossi: «Vivere. O sopravvivere / senza perdersi d’animo mai / e combattere e lottare contro tutto, contro!»
Maledetti sondaggi! Bersani era convintissimo, solo poche settimane fa, di poter essere il primo ex comunista a rompere un tabù. Conquistare Palazzo Chigi vincendo le elezioni. Certo, un incarico (esplorativo) era già stato dato a Nilde Iotti allora alla guida della Camera. E alla presidenza del Consiglio era già arrivato Massimo D’Alema. Non sull’onda di una vittoria elettorale, però: solo grazie allo strappo di una pattuglia di deputati di destra, bollati come «puttani» da Gianfranco Fini, e guidati da Francesco Cossiga che sguazzava tra le polemiche ridacchiando: «I miei sono come gli straccioni di Valmy che diedero una batosta al re di Prussia e io sono lo straccione capo».
Lui, Bersani, no. I sondaggi l’avevano illuso che ce l’avrebbe fatta a vincere. Uscendo infine da quell’ambiguità che facendo di necessità virtù aveva spinto la sinistra a giocare due volte la carta di Romano Prodi, vale a dire un post-democristiano indicato da «Baffino di ferro», allora segretario del partito, con parole indimenticabili: «Lei è una persona seria e noi abbiamo deciso di conferirle la nostra forza». Manco fosse re Artù che posava la spada sulla spalla di un cavaliere scelto con regale magnanimità.
Ci aveva creduto tanto in quei sondaggi, il segretario democratico, che sfidando la scaramanzia si era spinto ad andare oltre l’incoraggiamento ai sostenitori («Andiamo a vincere!») obbligatorio in campagna elettorale. «Le altre alleanze, quelle di Berlusconi con Storace e Maroni e di Monti con Fini e Casini, si squaglieranno come neve al sole!» «Non ho mai creduto in questi calcoli a margine, cioè su questa o quell’altra Regione. Le elezioni hanno sempre l’aspetto di un’onda, e io sento per noi un’aria buona». «Mi sono arrivati tanti messaggi dall’estero, dove, al contrario dell’Italia, hanno già metabolizzato la nostra vittoria».
Il massimo lo diede in un comizio a Napoli, capoluogo mondiale dello scongiuro. Dove sorridendo di se stesso e di uno dei suoi proverbi popolari («meglio un passerotto in mano che un tacchino sul tetto») si avventurò a promettere: «Ancora sette giorni e lo smacchiamo, il giaguaro. Posso anche prenderlo in braccio, ma preferirei prendere in braccio il tacchino». Un concetto non meno arduo da capire, nella sua astrazione metaforica, di certi avvitamenti bertinottiani: «l’economicismo non si presenta più come un atteggiamento povero di antagonismo reale, ma si trova costretto a scegliere drasticamente tra la subalternità compatibilistica e l’urlo comparativo...»
Quale fosse il suo sogno di governo, Bersani l’aveva spiegato anni fa, sul filo del paradosso, nel libro «Quel gran pezzo dell’Emilia» di Edmondo Berselli: «Bisognerebbe che a Roma lasciassero fare a noi. Si fa una bella coalizione in cui tutti si mescolano e in cui le differenze di pensiero sono francamente modeste, perché lo sappiamo che qui ci possiamo dividere al massimo su come fare la bretella autostradale di Sassuolo, ma per il resto siamo d’accordo praticamente su tutto. E a quel punto si prende il 65% dei voti, in tutta Italia, e fuori dalla coalizione restano soltanto i fissati: che ne so io, Marco Pannella, Giuliano Ferrara, i berlusconisti più ideologizzati, i socialisti di De Michelis, Bertinotti perché a stare fuori ci gode, e a destra quelli della Lega, che con il federalismo hanno rotto il cazzo, e quelli di Alleanza nazionale vediamo se il processo che hanno avviato durerà trenta o quarant’anni e poi decideremo». Egemonismo all’emiliana. Poche ideologie, buon senso e tagliatelle.
Quanto ha pesato ieri, su questa scelta sofferta di tenersi aperto uno spiraglio, la speranza di potere in qualche modo tornare in gioco e rompere quel maledetto tabù? Chissà... Ma certo dopo Bersani, autore delle assai poco comuniste liberalizzazioni e benedetto a suo tempo addirittura dalla Confindustria come «il migliore dei ministri dell’industria da decenni», sarà ormai difficilissimo che un figlio del vecchio Pci possa più conquistare con il voto Palazzo Chigi. Magari ce la faranno Matteo Renzi o Enrico Letta, Pippo Civati o Roberto Speranza o chissà quali altri «pulcini» oggi ignoti delle covate più recenti. Ma quel tabù emerso dalla lontana sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto rischia, salvo impensabili sorprese, di restare inviolato.
Gian Antonio Stella