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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

KIRGHIZISTAN [DOVE USA E RUSSI SI MINACCIANO A QUARANTA CHILOMETRI DI DISTANZA]


BISHKEK (KIRGHIZISTAN). Attenti ai tulipani. Cercando con mille attenzioni di non danneggiare le aiuole stracolme del fiore nazionale, un gruppetto di gentili operai dagli occhi a mandorla sta sistemando enormi barriere di cemento armato sulla piazza dei Monti Colorati. Lo scenario fiabesco, i cappellini a punta, i bambini sorridenti, lo sfondo dei monti Ala Too che cambiano colore a ogni ora del giorno, sono solo un inganno. A Bishkek, capitale del Kirghizistan, un tempo cuore asiatico dell’Impero sovietico, domina la paura.
L’incubo di nuove rivolte e di altre stragi in un pezzetto di mondo dimenticato, reso maledettamente instabile dalla fine dell’Urss e da un intrigatissimo incrocio di interessi economici e strategici. Pochi, a Bishkek e dintorni, hanno idea delle complesse tensioni internazionali che hanno trasformato il Paese in una polveriera: le miniere d’oro e di uranio contese, le basi militari di Russia e Stati Uniti che si dividono il controllo di una delle zone chiave dell’Asia centrale, i traffici di droga gestiti da multinazionali del crimine che sguazzano tra frontiere permeabili e governi ad altissimo tasso di corruzione.
Gli abitanti della capitale sanno solo che da un momento all’altro la furia può scatenarsi come tre anni fa, senza un senso apparente. E, come tre anni fa, prenderebbe direzioni diverse e confuse. La rivolta politica dei nostalgici dell’ex presidente Bakiev ancora decisi a riconquistare un potere perduto. Quella dell’odio razziale dei nazionalisti del sud del Paese pronti ad accanirsi ancora una volta contro la ricca minoranza uzbeka che popola la valle di Fergana che vide le gesta di Gengis Khan. E quella, più disperata, dei pastori e dei nomadi, affamati da una crisi senza fine e pronti a lasciare le loro yurte sui pascoli di montagna per calare in città a saccheggiare case, negozi, edifici pubblici. Nessuno ha mai fatto il conto esatto delle vittime degli scontri del 2010. Ma tutti, dal governo alle ong internazionali, sono d’accordo nel dire che la cifra ufficiale di duecento morti è molto al di sotto della realtà.
Ecco perché la paura è una cosa seria. E cresce ad ogni manifestazione. Le notizie più inquietanti arrivano da Jalal Abad, città natale di Bakiev, dove i cortei di protesta si fanno sempre più violenti. Prima migliaia di giovani armati di cartelli e bandiere. Poi un gruppo di donne particolarmente aggressive, arrivate dai villaggi vicini, che hanno attaccato a calci e pugni i poliziotti. E l’altro giorno perfino una spettacolare carica a cavallo di un non meglio identificato gruppo di sostenitori del partito Ata Zhurt (Patria) che hanno simulato una presa del palazzo governativo della regione, messo in allarme la guardia nazionale, dileguandosi poi al galoppo sulle colline.
Segnali inquietanti che, ogni volta, non casualmente, coincidono con i momenti più delicati per il controllo della zona. E capita così che, sapientemente aizzati dalle parti interessate, gli inconsapevoli disperati di un Paese sempre più povero si ritrovino sull’orlo dell’abisso e della violenza senza nemmeno capire il perché.
A guardare alle cose concrete si scopre infatti che, proprio come alla vigilia degli scontri del 2010, Russia e Stati Uniti stanno combattendo una battaglia diplomatica senza esclusione di colpi sulla pelle del Kirghizistan. La causa ufficiale è sempre la stessa: le due basi militari che sorgono, blindatissime e misteriose per i padroni di casa, ad appena 44 chilometri di distanza. A Ovest c’è quella americana di Manas cui Obama in persona tiene moltissimo, nel suo tentativo di uscire in maniera onorevole dal pasticcio afgano. Da qui partono infatti convogli e autocisterne che foraggiano e assistono il lento ritiro delle truppe Usa e la dislocazione in Afghanistan dei militari che dovranno gestire l’ennesimo «periodo di transizione».
Poco più a est, la bandiera russa sventola sulla cittadina fortezza di Kant, sede della V Armata aerea che un tempo fu il fiore all’occhiello dell’aviazione sovietica. A Kant, realizzata in piena invasione nazista nel 1941, si è formato il fior fiore dei piloti militari dell’Urss. E anche un certo numero di giovani ufficiali di Paesi amici destinati a un futuro da leader al loro ritorno in Patria. Esempi più illustri: l’ex presidente egiziano Mubarak e il raìs siriano Assad padre.
La base americana, piazzata in un ex territorio sovietico nel 2001 in un momento di distrazione e di altri problemi del governo di Mosca, è sempre stata considerata da Putin un’onta da rimuovere con tutti i mezzi. I vari governi kirghizi hanno cercato di barcamenarsi tra l’una e l’altra potenza cercando di guadagnarci il più possibile. Hanno tirato su da entrambi i contendenti enormi cifre di denaro finite quasi sempre nelle tasche dei politici di turno, residuati riciclati della vecchia nomenklatura sovietica di un tempo. E ogni volta che si è arrivati a un momento decisivo, puntualmente sono scattati disordini e tensioni. Le violenze del 2010 esplosero poco dopo che il parlamento convinto dai russi aveva votato la chiusura di Manas. Il clamore internazionale che ne seguì consigliò un rinvio della decisione. E adesso siamo di nuovo al punto cruciale. L’attuale presidente Almazbek Atambaev ha annunciato lo sfratto degli americani nel 2014. E la tensione sale. Washington insiste. Ha mandato un inviato speciale della Casa Bianca a Bishkek, offrendo il triplo dell’affitto finora pagato (220 milioni di dollari) e altre concessioni «riservate» per molti notabili. Ma la concorrenza è dura. Mosca insiste per cacciare gli americani e offre un condono di oltre 500 milioni di dollari del suo credito presso Bishkek. E non si ferma qui: si ripromette di trasformare a spese sue Manas, una volta «liberata» dalla presenza americana, in un aeroporto internazionale dentro a un fantastico progetto milionario di rilancio del turismo e del commercio locale.
Schiacciati e tentati tra lusinghe e minacce, i governi kirghizi provano a prendere un po’ di tutto con un gioco pericolosissimo che li mette a rischio di confusionarie «rivoluzioni colorate» organizzate dall’una o dall’altra parte. Lo stesso gioco praticato per le immense ricchezze minerarie del Paese: come la miniera d’oro di Kumtor, gestita dalla canadese Conterra Gold e bramata da diversi oligarchi russi. O il giacimento di uranio di Kara Balta, controllato da una azienda di Mosca ma conteso da altre imprese occidentali. Anche in questi casi i governi badano solo ad alzare il prezzo, paventando ogni tanto lo spettro della nazionalizzazione, che invece piacerebbe molto alla gran parte della popolazione costretta a vivere in miseria in uno dei paesi potenzialmente più ricchi dell’Asia.
Trattative, proclami e tangenti che scivolano in molte tasche. La gente di Bishkek resta in guardia mentre le barriere anti sommossa riempiono la piazza e i commercianti arruolano guardie armate per proteggere le loro vetrine.