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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

LA SCELTA DI FRANCESCO: PIÙ FRANCESCANO O PIÙ GESUITA?


Gesù, Giuseppe o Maria. È la giaculatoria che, con il suo stemma araldico, papa Francesco recita da quando è vescovo. Campo azzurro in araldica, designa la provenienza transmarina; le tre lettere del Cristogramma indicano Gesù Salvatore; la stella Maria e il nardo, ossia la lavanda, il segno araldico di San Giuseppe. E qui, iniziano le discussioni: la giaculatoria è tipica della spiritualità popolare e popolana dei francescani, i fratacchioni delle nostre campagne.
Il monogramma IHS (lesus Hominum Salvator), scelto da Ignazio di Loyola come emblema della sua Compagnia, ai tempi nostri avrebbe pagato il copyright a San Bernardino da Siena che, prima delle sue epiche omelie in tutte le città italiane, lo esponeva su una tavoletta vicino al pulpito da cui parlava. E anche San Giuseppe, senza i francescani, se la sarebbe passata male: è stato San Francesco, a Greggio, a introdurlo nella grotta di Betlemme, visto che fino ad allora l’iconografia cristiana lo poneva lontano dalla culla del figlio putativo, con aria alquanto imbronciata. E sempre i francescani, nel 1960, convinsero papa Giovanni XXIII, dopo una battaglia durata quasi tre secoli, a farlo invocare durante la messa, nella preghiera eucaristica, dopo la Vergine Maria. E qui cominciano le preoccupazioni: se papa Francesco farà il francescano, riuscirà a fare in modo che lo ridiventino anche i frati di Assisi, Padova, San Giovanni Rotondo e altre amene località sparse nel mondo?
È stato lui stesso a raccontare, durante l’incontro con i giornalisti che hanno seguito il conclave, che uno dei suoi elettori gli aveva suggerito di prendere il nome di Clemente XV: «Così ti vendichi di colui che ha soppresso la Compagnia di Gesù». Si riferiva a Clemente XIV, il papa che il 21 luglio 1773 cancellò i gesuiti dalla Chiesa, e fu l’ultimo papa francescano. Oltre alla soppressione dell’Ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola, mise in carcere nelle segrete di Castel Sant’Angelo il generale della Compagnia, Lorenzo Ricci, accusandolo di non voler svelare i «tesori» dei gesuiti. Inutilmente, sempre segregato in carcere nel 1775 in punto di morte, il povero padre Ricci giurò davanti all’Eucarestia che la Compagnia non aveva dato nessun pretesto alla sua soppressione e che egli – personalmente – non aveva dato «motivo alcuno seppure leggerissimo» alla propria carcerazione.
A leggere la storia dei due ordini religiosi, quello francescano e quello gesuitico, non si fa fatica ad immaginare quanto fossero belli e intensi quegli anni. I francescani insistevano con rara testardaggine a strapparsi reciprocamente le barbe litigando su principi primi, per loro, fondamentali. Esempio: se Madonna Povertà deve essere servita con estrema dedizione, come ordinato da Francesco (il nome scelto dal Papa era il soprannome del santo di Assisi dategli perché sua mamma era francese: il nome di battesimo era Giovanni), a chi appartiene il boccone che un frate ha in bocca, al momento di deglutire? Alla Chiesa, sarà la risposta, dopo lunghe liti e infinite riforme, degli oltranzisti con il saio. Come investire, e bene, i soldi utili all’espansione missionaria e alle altre opere che la Compagnia, in quegli anni «forte» di oltre diecimila gesuiti schierati a battaglia in tutte le regioni conosciute del mondo, e in buona parte di quelle sconosciute, stava introducendo nella Chiesa e nella civiltà occidentale? Facendo buoni affari, anche con le borse di Parigi e di Londra, rispondevano senza liti e senza discussioni i bravi padri.
«Guardateli» scriveva Diderot «come sono bravi e capaci, allo stesso modo, di fare i pagani a Tahiti e i cattolici a Parigi». Il buon Denis si riferiva a padre Antoine de Lavalette, una specie di Paul Marcinkus ante litteram, un gesuita francese missionario in Martinica che durante il generalato di padre Ignazio Visconti, il sedicesimo successore del Loyola e forse anche il più pasticcione, era stato richiamato dai confratelli per la sua propensione alle imprese commerciali.
Poco prima di morire, padre Visconti, gli permise di tornare alla missione, con l’ordine però di non riprendere le attività di commercio. Lavalette non diede ascolto e mesi dopo, quando diverse sue navi di ritorno in Europa furono catturate dai pirati, fece fallire la sua società. Lo scandalo e il rifiuto dei gesuiti di accettare responsabilità finanziarie (preferirono dichiarare il fallimento della loro Procura delle missioni di Parigi piuttosto che pagare i creditori) spinsero il Parlamento francese dominato da elementi giansenisti, sempre pronti ad invocare San Francesco per dare addosso ai gesuiti e a invocare la Compagnia per fornire appoggio ai libertini, ad obbligare Luigi XV a dare esecuzione a una serie di disposizioni discriminatorie contro i seguaci del Loyola. E che i mercanti parigini danneggiati fossero su tutte le furie risulta anche dai roghi dei libri degli autori gesuiti, e dalla chiusura dei loro collegi.
Insomma: Clemente XIV, francescano, aveva quantomeno qualche buon motivo per essere disinformato quando sospettava che i gesuiti dovessero restituire alla Chiesa ciò che riuscivano a mal togliere al prossimo.
Tuttavia, al momento, esiste il fondato sospetto che papa Bergoglio, benché sia sempre stato un gesuita «tosto», non porti rancori, così come sembra far pensare la scelta anticonformista del suo nome da Papa.
Forse i francescani avranno modo di ricordare che la sigla IHS compare per la prima volta nel III secolo tra i nomina sacra, le abbreviazioni usate nei libri sacri, e che è presente nelle monete di Giustiniano, nei manoscritti e nei monumenti funerari del VII e VIII secolo, negli scritti di san Bernardo da Chiaravalle, del beato Giovanni Colombini o di san Vincenzo Ferrer.
Per adesso, prima di speculare su quanto di gesuitico o di francescano prevarrà nella vita e nelle imminenti opere del nuovo Papa, sarà bene considerare che Gesù, Giuseppe e Maria troneggiano nel suo stemma. E che, fino ad oggi, sono sopravvissuti a tutti e a tutto, papi e crisi finanziarie compresi.
Filippo Di Giacomo