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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

PERCHE’ NON SONO ANCORA IN PACE CON MIO PADRE"

Cristiano De André è un bambino di 50 anni e quattro figli, che mai ha elaborato a fondo la morte di quel padre così impegnativo. Ma dialogando con questo dolore che continua a struggergli l’anima, e proprio con l’idea di costruire qualcosa che «lui» avrebbe potuto approvare, il tormentato cantautore e polistrumentista che dall’adolescenza abbiamo visto sul palco con cotanto papà ha appena inciso un album, Come in cielo così in guerra , che uscirà il 2 aprile. Fin dal primo ascolto si rivela l’opera da artista completo. È come se Cristiano si fosse tolto la pelle, e fra furore creativo e sincerità disarmante avesse dato veramente fiato ad una poetica finora inespressa, resa più convincente anche dalla prova di interprete.

Erano 12 anni, da Scaramante , che De André junior non incideva un album. Il tempo lungo rende bene l’idea del tormento interiore, condito da qualche disordine esistenziale, e del sollievo che ora lo permea, alla fine del concerto di debutto del tour l’altra sera al Teatro Verdi di Firenze: primo tempo per il suo album, il secondo per il repertorio di Fabrizio. Cristiano si è sfogato sul palco, ha parlato sedici minuti per dare il tempo ai tecnici di riparare alcuni problemi che affliggevano l’audio: è stato un torrente di confessioni, che tornano poi identiche a fluire al ristorante del dopo teatro, dove parla senza ascoltare né domande né complimenti: «Questo disco viene da un anno passato da solo a scrivere con la paura di non riuscire. Un anno bellissimo, in cui ho voluto dimostrare quel che avevo promesso a mio padre, che ce l’avrei fatta». Il rimpianto è sempre quello: «Avrei voluto stare con lui, dava un senso alla mia vita. E la mia vita è stata farmi molto male».

Come in cielo così in guerra è un titolo molto alla De André. Dentro ci sono tutte le guerre sue, sottolineate da atmosfere sonore assai sorvegliate, cantabili, prodotte con cura e rispetto da Corrado Rustici, in un celebre studio californiano. Pezzi incalzanti come Non è una favola (l’inizio: «Lei ha gli occhi del colore dell’asfalto/E non conosce il verbo rallentare»), ballads dolci e potenti sul suo rapporto con Fabrizio o con i figli, come Sangue del mio sangue («Noi due che così simili/Stessa rabbia stessa allegria»). I testi si fanno taglienti in Credici sulla decadenza della società, dove parla di «lingue golose dei mercati/che per i loro tacchi rialzati/hanno svenduto il paese al peggiore dei medioevi», ma è Il mio esser buono il più spietato degli autoritratti: «Il desiderio di un’infanzia/Risolto in un bicchiere tra le mani».

Cristiano sta cercando di venire a patti con la proprio vita. Tumulti, ricordi e speranze lievi accompagnano le sue confessioni nude. «Ingenuo e romantico io non ho paura di questo cercare», aveva cantato poco prima. L’intreccio fra vita privata e produzione artistica è strettissimo. Sul palco e al ristorante, allude ai figli di primo letto: «Mi sono sposato a 24 anni, separato presto, e non ho avuto la possibilità di raccontare la mia famiglia ai miei figli. Hanno vissuto storie di moda e Isola dei famosi, non ascoltano la musica del nonno. Io non ce l’ho con l’ Isola, ma mi spiace che chi ha talento non si cimenti». E il suo, di papà: «Ha avuto un padre inflessibile, sindaco di Genova, e un fratello megadirigente dell’Eridania. Da loro aveva imparato un rigore terribile, e ha sofferto molto, ma è diventato famoso. Beveva, e pure io ho fatto così, però Erasmo da Rotterdam mi ha spiegato che il confine fra la realtà e la follia può essere spostato dal talento».

Ricorda il rapporto di amicizia di Fabrizio con Grillo: «Sto con Beppe da quando sono nato. Anche lui subisce chi si approfitta della fragilità degli altri: magari esagera ad attaccare le persone, ma dice cose reali». Escono aneddoti anche gustosi, oggi: «Mio padre era bellissimo, sembrava un avvocato, poi ha cominciato a vestirsi con il maglione, come Guccini. Ai tempi di Storia di un Impiegato Cossiga era convinto che fiancheggiasse un gruppo armato. Invece finì per innamorarsi dei suoi rapitori, e dopo che mio nonno aveva sborsato un miliardo per farlo liberare, non voleva costituirsi parte civile». Ricorda: «Bob Dylan era in Italia, e voleva conoscerlo. Ma mio padre disse di no perché non era sicuro dell’interprete. Era la persona più fragile e insicura del mondo, era un grande perché era il carnefice di se stesso».