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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

SALVATE IL SOLDATO KEVIN

FIRENZE Un esordiente americano, Kevin Powers, ha scritto il primo grande romanzo sulla guerra in Iraq. Il suo Yellows Birds, accolto come un caso letterario negli Stati Uniti (in Italia esce per Einaudi Stile Libero, traduzione di Matteo Colombo), scorre sulle pagine con l’energia impietosa della verità. La verità è più audace dell’immaginazione. La verità della guerra è insopportabile. Come nozione viva e presente, estranea ai libri di storia, la guerra occupa territori che ci appaiono brumosi e lontani, collocati nelle news televisive, nelle cronache giornalistiche, nella registrazione quotidiana degli eventi su Internet. Da spettatori inerti, assistiamo a una performance che s’agita con violenza dentro un tempo che, seppure parallelo, sentiamo come alieno e non partecipato. La guerra è un sogno tanto spaventoso quanto innocuo, un esorcismo in grado di distanziare la coscienza.
Powers ci immette invece nel rosso sangue di una guerra prossima e vissuta, ma esercitando il dono della poesia. È al contempo realistico e visionario. La sua lingua lirica e sintetica attribuisce alla guerra l’aspetto di un’entità cieca, dotata di una propria urgenza identitaria: «Mentre dormivamo, la guerra sfregava a terra le sue mille costole in preghiera. Quando arrancavamo, sfiniti, i suoi occhi erano bianchi e spalancati nel buio. Se noi mangiavamo, la guerra digiunava, nutrita dalle sue stesse privazioni. Provava a ucciderci ogni giorno, ma ancora non le era riuscito. La guerra prendeva ciò che poteva. Era paziente».
Kevin Powers è un trentaduenne che ha attraversato gli orrori bellici con tragico stupore, proporzionale all’ingenuità fiduciosa che lo animava quando partì per l’Iraq. Grazie a Yellow Birds (titolo ritagliato da una filastrocca in uso tra i militari in marcia) è stato travolto dal successo. Nella lista di premi ricevuti, di lunghezza impressionante, ci sono il “Guardian First Book Award” e il riconoscimento annuale della Hemingway Foundation. Il libro figurava inoltre nell’elenco dei best-seller del New York Timesed è stato acquisito dagli editori di venti Paesi. In questi giorni Kevin è a Firenze al seguito della moglie Kelly, che vi frequenta un corso come designer di moda. È un giovane uomo dal sorriso malinconico che si propone all’interlocutore con composta timidezza.
Signor Powers, quanto c’è di autobiografico nella storia di Bartle, l’io narrante del romanzo, e dell’amicizia straordinaria che lo lega a Murphy, il ragazzo che non gli sopravvive e che Bartle si rimprovera angosciosamente di non aver protetto?
«Anche se i fatti del libro sono inventati,
io mi specchio nella vita interiore di Bartle: nelle sue paure, nella sua vergogna, nel suo rimorso, nella sua rabbia. Ciò che deve affrontare è più duro di quel che è capitato a me, ma posso comprenderlo. So cosa produce un periodo trascorso in guerra. I tre caratteri principali, Bartle, Murphy e il sergente Sterling, nascono dall’esplorazione della mia parte più buia».
Il nome Bartle ricorda il Bartleby di Herman Melville. Perché usa questo riferimento?
«Mi affascina il modo in cui Melville riflette nel personaggio di Bartlebly l’idea della resa. Il mio Bartle è prigioniero della guerra così come il Bartlebly di Melville lo è dell’ufficio legale in cui lavora, soffocato da obbligazioni e ipoteche. Tra di loro c’è un nesso. Entrambi devono operare un ritiro emozionale per non essere schiacciati dal medesimo problema: la consapevolezza di non avere il minimo controllo della situazione».
La figura del sergente Sterling ha qualcosa di sadicamente granitico che ci riporta alla visione dell’esercito Usa proposta da Full Metal Jacket di Stanley Kubrick.
«Per suo tramite ho voluto mostrare cosa sarebbe potuto divenire Bartle se fosse tornato in guerra per la seconda volta, come ha fatto Sterling. Bartle scorge in lui un’eventualità del proprio esistere. L’abitudine alla guerra può massacrare una persona, trasformandola nel freddo ingranaggio di una macchina di morte».
Qual è il ricordo più forte che ha dell’Iraq?
«Ce n’è uno, in particolare. Un giorno, con la mia pattuglia, ci siamo accorti che bisognava allontanarsi da una certa zona a causa di una bomba e siamo saliti sopra una collina. A un certo punto mi sono reso conto che quel terrapieno copriva il muro di Nineveh, la città biblica. Erano proprio le antiche mura di cui parlava la Bibbia. Mi sconvolgeva l’idea che quel mondo ricco di storia fosse il campo della nostra malsana battaglia».
Giudica così la missione americana in Iraq?
«È stata un gravissimo errore. Sapevamo che lì avremmo dovuto trovare armi di distruzione di massa, ma poi, una volta arrivati, abbiamo realizzato che non era
quello lo scopo. Quando fai il soldato, l’istinto ti porta a non credere mai di combattere una guerra ingiusta. Devi giustificarti pensando di andare a ricostruire un paese. Ma ho capito presto che l’esercito mi aveva mentito, e da quel momento mi sono concentrato su un unico obiettivo: cercare di salvarmi e di far tornare vivi a casa i miei amici».
Com’è stata la sua vita, prima e dopo l’Iraq?
«Sono cresciuto in Virginia. Mia madre era una postina e mio padre lavorava in una fabbrica di sigarette. Leggevo molto e avevo spesso la testa tra le nuvole, perciò andavo male a scuola. Finito il liceo non sapevo quale strada prendere, e avevo opzioni limitate per motivi economici, dato che i college statunitensi sono carissimi. Mi sembrò che arruolarmi fosse una buona scelta e lo feci a diciassette anni, anche perché così avrei potuto ricevere un’educazione universitaria. L’esercito la garantisce alle reclute, e usa questo metodo per attirare i giovani. Sono stato militare per cinque anni, e stavo per concludere quando la mia unità è stata mandata in Iraq, dove sono rimasto dal febbraio del 2004 al febbraio del 2005. Ero mitragliere, e il mio compito era proteggere i soldati mentre cercavano le bombe ai margini delle strade. Tornato a casa ho fatti vari lavori frequentando il college la sera. Intanto scrivevo, scrivevo…».
Il libro ha una struttura viaggiante tra epoche diverse della vita di Bartle, percorrrendo un flusso di flashback.
«Ho cercato un andamento che riflettesse il suo stato mentale. La sua esperienza è frammentata e Bartle vive molto nel passato, cioè nella memoria atroce della guerra, che in lui è determinante quanto il presente. Non ha un pensiero lineare perché i suoi trascorsi contaminano il “dopo”. Quando torni a casa dopo la guerra, reagisci in modo inappropriato a tutto. Sei sfasato e hai perso la messa a fuoco».
Nel racconto della speciale amicizia che unisce Bartle a Murphy si avverte la sua visione profondamente “filosofica” di questo sentimento.
«Ogni rapporto umano ha un’enorme complessità, e io volevo esplorare i limiti di una relazione. Se ci impegniamo a prenderci cura di una persona, fino a che punto dobbiamo farci condizionare da tale impegno? Bisogna sacrificarsi per le persone amate? Erano queste le mie domande. Volevo rispondere con onestà, provando a osservare come un sentimento può svilupparsi ed essere messo alla prova da circostanze estreme, e sapendo che in guerra il bisogno di autoconservazione entra in conflitto con i doveri verso chi ci sta a cuore».