Roselina Salemi, L’Espresso 29/3/2013, 29 marzo 2013
NON È UN PAESE PER DONNE
Fa un certo effetto, in un momento di "orgoglio rosa" sentir parlare di malumori. Scoprire che le italiane sono le donne più infelici d’Europa e che la loro/nostra infelicità dipende dal lavoro. Non si trova, si perde, non ti permette di avere una famiglia, né di esprimere le capacità per le quali hai studiato. Altro che "work-life balance", altro che "equal pay". Eppure, in teoria, il progresso c’è. Il regolamento della legge Golfo-Mosca sulle quote per i consigli di amministrazione delle società pubbliche è entrato in vigore il 12 febbraio e porterà 5 mila, forse 7 mila donne nei posti che contano, in nove anni. Il nuovo Parlamento è il più femminile della nostra storia: un terzo tra deputate e senatrici. Le imprenditrici aumentano: è uno dei pochi dati in crescita di un’economia in difficoltà. Ma non è abbastanza.
IL PARADOSSO DELLE ITALIANE "She", la ricerca Discovery - Valore D, condotta su 4.500 donne europee di nove nazionalità fra i 20 e i 49 anni è chiara, definitiva, crudele. Dà un senso, purtroppo, alle statistiche sparse che vedono l’Italia all’ottantesimo posto in fatto di pari opportunità (Global gender gap report del Forum economico mondiale 2102), peggio del Ghana e del Bangladesh, al centoventiseiesimo quanto a divario salariale, cioè a nove posizioni dall’ultima, e in fondo a tutti in regioni come la Campania, dove l’occupazione femminile è al 20,4 per cento, come in Pakistan, Libano, Yemen e Mauritania. L’infelicità ci sta tutta. Niente di strano, perciò, se il livello di soddisfazione in ufficio si ferma al 22 per cento, mentre per le danesi sale al 48 (Che fare? Trasferirsi a Copenaghen, potendo? Mandarci le figlie?). Sul "me time" (volersi bene, farsi un Cosmopolitan come le quattro amiche di "Sex and The City") c’è una convergenza europea: lo vogliono tutte (la media internazionale è il 54). Anche il 70 per cento delle italiane, ma il loro è un tempo più sognato che reale. E poi c’è il deprimente record sul bilancio: per oltre la metà è in rosso. Non hanno raggiunto gli obiettivi sperati, voluti, promessi.
Che cosa rende così faticosa la ricerca della felicità in Italia? Per Varinia Nozzoli, insight & research director Southern Europe di Discovery Networks, che ha seguito "She", questa situazione inquietante è il frutto di un paradosso. «Le italiane stanno peggio perché puntano sul lavoro più delle svedesi, delle danesi, delle tedesche. Un po’ di numeri? Per il 43 per cento la carriera è considerata un’importante fonte di felicità. Valori più alti si registrano soltanto in Polonia e in Russia», spiega. Se invece andiamo in Paesi dove, a differenza del nostro quasi 50 per cento, il tasso di occupazione femminile supera il 77, come in Svezia o in Norvegia, o almeno il 72 (Danimarca e Germania), il lavoro viene visto come ingrediente fondamentale di felicità solo dal 22 delle donne. «In questi Paesi contano altre cose, non perché le donne siano diverse, ma perché le opportunità esistono, la partecipazione e il sostegno sociale sono una realtà», continua Nozzoli. Le danesi insomma stanno meglio non perché fanno carriera, ma perché il lavoro non è un problema, e nel bouquet della soddisfazione personale entrano altri elementi: il tempo libero, la famiglia, la vita di coppia.
IO MI BOICOTTO DA SOLA Questa è la parte più interessante della ricerca: non il "cosa", ma il "perché". Gli stereotipi sociali resistono. Le donne non si sentono legittimate a trattare temi finanziari e ancora meno a guadagnare di più del loro compagno/marito. Vedono subito il potenziale conflitto. Siamo lontanissime dalle bread winner teorizzate dal saggio di Liza Mundy "The Richer Sex", che annuncia una rivoluzione matematica: «Oggi le donne sono il 60 per cento degli studenti universitari americani e la maggioranza dei laureati, entro venticinque anni saranno le professioniste più pagate». Non è una buona notizia in assoluto. Patrizia Castellucci, psicologa e consulente aziendale, sostiene che l’uomo può vedere il sorpasso professionale come un fallimento personale, «provare sentimenti di inferiorità e di umiliazione. Forse per questo tante donne si sono sabotate da sole: hanno intuito il rischio per la coppia». Seguendo i numeri della ricerca, bisognerebbe dar retta a Eleanor Tabi Haller-Jorden, general manager di Catalyst Europe (organizzazione no profit per la valorizzazione del talento femminile) che indica l’Islanda come il posto ideale. Oppure bisognerebbe prendere in considerazione un trasloco in Norvegia, dove gli uomini non fanno un plissé se la moglie guadagna di più, come nel mondo anglosassone, dove sta nascendo una nuova tipologia di maschio-casalingo: si chiama Sahd (stay-at-home-dad). Alle italiane invece, tocca ancora scegliere tra famiglia e carriera o diventare "mamme acrobate", bella definizione della psicoterapeuta Elena Rosci, sempre sul filo, e sempre sul punto di cadere. È un argomento vecchio, lagnoso, però evergreen, come una canzone dei Pooh. Il 71,3 per cento del lavoro familiare è a carico delle donne e in casa, soltanto il 19,4 per cento degli uomini (ultima indagine Eurispes) fa partire una lavatrice. Lo conferma il terzo Rapporto sulla coesione sociale curato da Inps, Istat e ministero del Lavoro: una madre con figli e impiego ha davanti a sé una maratona quotidiana di nove ore e 28 minuti, un’ora e un quarto più dell’uomo. Sembra un’informazione slegata da tutto questo incrociarsi di percentuali, ma scopriamo che due terzi delle ragazze laureate ha scelto facoltà con minore probabilità di lavoro e i cui sbocchi sono peggio pagati. Perché? Troppa passione e poca razionalità nella scelta professionale? Influenza culturale nell’indirizzarsi verso percorsi che permettono una maggiore conciliazione vita-lavoro, ma sono ormai saturi? Roberta Marracino, direttore Comunicazione e Ricerca di McKinsey, mostra grafici e tabelle esplicative: «La differenza tra il tempo dedicato dalle donne e quello dedicato dagli uomini alle attività casalinghe e familiari è tripla rispetto ai Paesi nordici, doppia rispetto a Germania e Regno Unito e superiore di tre quarti rispetto alla Francia». Ma l’Italia è anche il Paese a più basso tasso di part-time maschile (poco più del 5 per cento) come la Spagna, mentre in Svezia e Norvegia 15 uomini su 100 lo chiedono abitualmente.
CI VORREBBE UNA MOGLIE Si capisce a questo punto la provocazione di Chiara Lupi sul suo blog "Dirigenti disperate", due figli, un gatto, un ex marito, autrice del pamphlet "Ci vorrebbe una moglie", pubblicato da E.S.T.E: «Sarebbe molto più facile lavorare con la certezza che qualcun altro stia pensando alla gestione della vita tua e dei tuoi pargoli. Tutto un altro spirito, sedersi alla scrivania con la certezza che nessuno da scuola ti chiamerà per dirti che un figlio ha mal di testa, di pancia, febbre o tutte e tre le cose insieme». Così è nata l’idea paradossale: ci vorrebbe una moglie. Invece, certe volte non c’è neanche il marito. Dice Varinia Nozzoli: «Immaginiamo una donna di 38 anni, separata, due figli, cresciuta con l’idea onnipotente del "devo fare tutto": se non vuole stramazzare deve trovare una via di mezzo, il famoso bilanciamento. Quale? Preferisce non fare carriera, o farne meno. Rinunciare a obiettivi ambiziosi e tenere assieme la famiglia. Se ci riesce, è contenta così».
Eppure alcuni atteggiamenti tradizionali sono cambiati. Se avere un marito resta importante (71 per cento), i legami familiari sono meno condizionanti, il divorzio non è un dramma, la convivenza è largamente accettata, siamo vicini alle medie europee. È il lavoro il punto di rottura, la scogliera contro la quale si schiantano le barchette rosa. Per Varinia Nozzoli: «Le donne devono elaborare un modello nuovo. Non può essere quello delle nonne, né quello delle mamme e sorelle maggiori - la manager workaholic, iperattiva, la wonderwoman degli anni ’80-’90 - non può essere quello maschile, né quello "acrobatico"».
In margine a un saggio dal titolo impossibile, "Estensione del dominio della manipolazione", critica durissima all’organizzazione del lavoro, la filosofa Michela Marzano ipotizza che tocchi proprio alle donne riplasmare il modello ancora troppo legato all’idea della "fabbrica". Ed è quello che sta succedendo, con qualche risultato, per fortuna.
TV SENZA TACCHI A SPILLO Discovery Channel, che è appena diventato il terzo polo televisivo, ha costruito il suo successo sulla forza femminile. L’amministratore delegato, Marinella Soldi, è una bella signora di 46 anni con le idee chiare, sposata, due figli, una lunga esperienza all’estero. Fa televisione di intrattenimento senza tacchi a spillo e ballerine, con brave conduttrici in video e manager creative dietro le quinte. «Dei dieci dirigenti che riportano a me direttamente cinque sono donne, e questo non è frequente in Italia», racconta: «Persino il mio capo a livello europeo è una donna». Testimonianza, sostiene Soldi, del contributo di diversità e mix di sensibilità che ritiene vincente: «La ricchezza di idee nasce da team in cui convivono i più diversi background, modi di pensare, approcci e sensibilità di genere. Real Time ha ottenuto risultati significativi presentando una visione quotidiana della donna, ma anche nuova, divertente, accattivante e ironica», racconta. Marinella Soldi dice un’altra cosa importante: le donne sono «interlocutori interessanti, e non hanno bisogno di dimostrarlo». Peccato che in una grande banca il progetto di una carta di debito pensata per le donne sia stato respinto con la seguente motivazione: «Poi ne facciamo una per chi ha gli occhi azzurri?».
La strada è ancora in salita. Manca il networking, e un po’ di strategia. Un ventaglio di proposte arriva da centri studi come quello della Banca d’Italia, da associazioni come Fondazione Bellisario, Progetto Donne e Futuro e Valore D - Donne al Vertice per l’Azienda di Domani, la prima associazione di grandi imprese (73) creata in Italia per sostenere la leadership femminile. Dentro ci sono nomi come Enel, Ikea, Luxottica, McKinsey, Pirelli, Intesa, Telecom, Unicredit. «Belle iniziative, purché non sia la foglia di fico, come quando si partecipa alle charity e si raccolgono fondi per cause giuste. Non ci si può sottrarre e si paga un ticket», sostiene Adele Mapelli, coordinatrice dell’Osservatorio sul diversity management di Sda Bocconi, facendo un po’ l’avvocato del diavolo: «Lo scatto vero avviene quando agevolare le carriere femminili diventa conveniente, perché ci sono idee e competenze. Però ci vuole tempo per questo. Considerato che la prima donna dirigente è del 1934, direi altri quarant’anni». Non sembra tanto una battuta quella di Maurizio Crozza in uno dei monologhi sul "Paese delle meraviglie": «Da noi Angela Merkel avrebbe fatto la segretaria di Tabacci».