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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

OGNI TANTO SBAGLIA ANCHE HARVARD

I migliori investimenti sono stati fatti dalla Notre Dame University. I peggiori sono quelli della Michigan University. La prima, un centro-studi che fa riferimento alla chiesa cattolica e ha sede a South Euclid, in Ohio, in un anno ha registrato un incremento del patrimonio mobiliare del 21,5 per cento; l’università che ha sede ad Ann Arbor, in Michigan, ha segnato un meno 0,5 per cento. Così, oggi, l’endowment (la dotazione) di Notre Dame, ovvero quel tesoro costituito prevalentemente da lasciti e donazioni, ammonta a 7,5 miliardi di dollari; quello di Michigan University a 7,7 miliardi. Le due istituzioni culturali sono entrambe nella lista delle dieci più ricche università degli Stati Uniti, rispettivamente all’ottavo e al sesto posto.
Da qualche anno, le analisi sul modo con cui le università americane investono i loro endowment e i risultati che ottengono attirano molta più attenzione che nel passato. Sicuramente per il brutto risveglio che i consigli di amministrazione dei college e, soprattuto, i responsabili delle finanze di ogni università, hanno avuto nel 2009, quando sulle ricchezze dei più prestigiosi come dei più piccoli e meno famosi college si abbattè lo tsunami della crisi e della recessione. Ci furono college che, dalla sera alla mattina, scoprirono di aver fatto investimenti disastrosi. Quell’anno le 700 università esaminate ogni anno dal Nacubo (l’associazione dei responsabili finanziari dei college americani) registrarono una perdita media del 22,5 per cento. Yale, uno dei college più prestigiosi d’America e nel gruppo della cosiddetta Ivy Leangue, vide andare in fumo il 30 per cento del suo tesoro. Era dal 1974 che non si assisteva a una catastrofe del genere. Negli ultimi due decenni gli investimenti davano guadagni superiori a quelli delle migliori banche di investimento, con rendimenti annuali medi tra il 5 e il 10 per cento.
Gli investimenti degli endowment delle università americane riguardano miliardi di dollari collocati in ogni settore, dai tranquilli bond al mercato azionario, dall’acquisto di società fino agli hedge fund e ai derivati più fantasiosi. Il denaro serve a far andare avanti le università con costi annuali di budget che si aggirano tra il 4 e il 7 per cento del valore del tesoro. Dunque, quella è la cifra di riferimento che bisogna avere a disposizione ogni anno, o attraverso nuovi lasciti e donazioni o attraverso i risultati degli investimenti. Oggi solo le prime dieci istituzioni universitarie (vedere la tabella) posseggono 132,25 miliardi di dollari e una stima dell’ufficio statistico del Dipartimento dell’Educazione dice che nel 2010 le università americane avevano un tesoro tra contanti, bond, azioni e investimenti di altra natura di oltre 355 miliardi di dollari. Quei fondi servono a pagare gli stipendi dei professori e degli amministrativi e le borse di studio (solo Harvard spende più di 170 milioni di dollari). Le scelte di investimento delle università sono seguite con molta attenzione per capire dove i responsabili finanziari decidono di indirizzare le cospicue somme. Attenzione ancora maggiore c’è verso quei college dove esistono le migliori scuole d’America di business. Eppure, non sempre le università a cinque stelle primeggiano nei risultati, come è avvenuto nel 2012 per le prime due per ricchezza: la bostoniana Harvard e la californiana Stanford, che hanno registrato, rispettivamente, un misero meno 0,05 e un più 1 per cento. È un risultato largamente al disotto della crescita dell’indice di Standard & Poor’s, che ha raggiunto nella stesso periodo un più 5,5 per cento. Meglio di Harvard e Stanford hanno fatto Yale e Princenton, con un più 4,7 e 3,1 per cento. Il 2012 è stato un anno di poche soddisfazioni, al contrario del 2011, che aveva visto risultati spesso molto brillanti: tutte a doppia cifra le performance di Harvard (più 21,4 per cento), Yale (21,9), Columbia University (24), Duke University (24,5).
Alti e bassi sono anche il risultato di un modo di investire assai più spregiudicato da parte dei responsabili degli investimenti. «Molte università generavano l’invidia dei migliori investitori americani», ha scritto James B. Stewart sul "New York Times", «come per esempio Harvard, che negli ultimi 20 anni ha avuto un rendimento medio del 12,5 per cento». Ma dopo la crisi del 2007-2008 gli investimenti sono stati diversificati a seconda della grandezza dell’endowment: i college più piccoli sono generalmente più conservativi e di solito scelgono la formula del 60/40, ovvero un misto tra azioni (60 per cento) e bond (40 per cento). I college più ricchi hanno scelto da tempo strade molto fantasiose: per esempio, il private equity o il venture capital, come anche la scommessa sulle energie alternative o le commodity, per finire agli hedge fund, ai derivati finanziari o agli acquisti di debiti ristrutturati. Dai dati di Nacubo si vede che più i college sono ricchi più aumenta la parte di investimento ad alto tasso di rischio: quelli che hanno un tesoro superiore al miliardo di dollari hanno impegnato in investimenti alternativi il 59 per cento dei loro asset; le università con un endowment compreso tra i 500 milioni e il miliardo di dollari il 49 per cento.
Nel mondo degli investitori ci si chiede se sia possibile per un singolo replicare il comportamento dei gestori dei ricchi endowment. David Swenson, il regista delle scelte di Yale, sostiene che è molto difficile seguire la strada di investire in settori ad alta illiquidità, dove bisogna fare salti mortali per trasformare in denaro contante l’investimento prima della sua scadenza. Alle università è possibile perché i loro obiettivi sono investimenti a lungo termine per i quali è plausibile correre il rischio di non potere uscire in fretta. «La difficoltà di capire il mondo degli hedge fund, del venture capital e del leverage buyout da parte di un investitore casuale», ha scritto Swenson in "Unconventional Success", «porta alla conclusione che anche se si è ben equipaggiati la barriera da superare è insormontabile per il singolo».
Un altro esperto del ramo, Mohammed El-Erian, che è stato il responsabile degli investimenti dell’endowment di Harvard, ha risposto in modo meno tecnico ma molto più efficace alla domanda se un singolo possa replicare i migliori risultati dei college americani: «È come se io consigliassi a mio figlio di abbandonare gli studi per dedicarsi al basket e diventare così il prossimo Michael Jordan».