Vittorio Malagutti, L’Espresso 29/3/2013, 29 marzo 2013
BANCHIERI CONTRO
A Verona il Banco Popolare naviga in perdita per centinaia di milioni. La genovese Carige sarà costretta a chiedere un’altra volta soldi ai propri azionisti. La Bpm è in rosso per oltre 400 milioni. E in provincia, da Bergamo (Ubi) a Reggio Emilia (Bper) fino al Credito Valtellinese, le assemblee dei soci in calendario il mese prossimo saranno chiamate a dare via libera a bilanci lacrime e sangue. Per non parlare dei big di sistema, Intesa e Unicredit, che sono riusciti a garantire ai soci niente più che un dividendo striminzito. Signore e signori ecco a voi l’effetto Visco. In Borsa lo chiamano così, nel senso di Ignazio Visco. Perché il governatore della Banca d’Italia questa volta ha parlato forte e chiaro. Non c’è più spazio per manovre diplomatiche e giochetti contabili. La ricreazione è finita. Se si vogliono davvero evitare crisi bancarie sul modello spagnolo o irlandese, i conti degli istituti vanno messi in sicurezza il più in fretta possibile. E allora Visco ha imposto regole nuove e più stringenti nella redazione dei bilanci. Si spiega così la raffica di conti in rosso che in questi giorni ha popolato le cronache finanziarie.
Non finisce qui, però. I banchieri non si arrendono. Costretta sulla difensiva, la lobby del credito ha alzato i toni di una campagna mediatica senza precedenti, scandita in questi giorni da dichiarazioni e interventi a raffica sui giornali. L’eccessiva prudenza del governatore penalizza i bilanci bancari, ma finisce anche per ostacolare la ripresa dell’economia, perché le banche in difficoltà saranno ancora più restie a dare una mano alle aziende. Questo, in sintesi, il pensiero corrente al vertice degli istituti di credito, illustrato più volte in dotti interventi da accademici prontamente arruolati dalla lobby dello sportello.
Per spiegare tanta agitazione, così come l’intervento della Banca d’Italia, bisogna partire da un numero: 126 miliardi di euro. Una somma colossale, una montagna di denaro che rischia di franare sul sistema finanziario nazionale. A tanto ammontano, secondo l’ultima rilevazione dell’Abi (Associazione bancaria italiana), i crediti in sofferenza a fine febbraio nei conti degli istituti di credito italiani. Solo un paio di anni fa lo stesso dato era ancora ben lontano da quota 100 miliardi. Com’era prevedibile, la recessione ha gonfiato la bolla delle insolvenze, dei prestiti che non verranno mai restituiti. E il peggio, secondo la gran parte degli analisti, deve ancora venire, perché gli effetti delle innumerevoli crisi aziendali si manifestano solo a distanza di qualche mese nei libri contabili delle banche. Nessuno sa quando, e soprattutto come, questa spirale verrà infine spezzata. Nel frattempo, però, i banchieri scherzano da anni con il fuoco. L’onda montante della crisi economica consigliava prudenza, ma al vertice dei principali istituti di credito dovevano fare i conti anche con altre questioni, altre preoccupazioni. Stretti d’assedio dai loro azionisti, a cominciare dalle fondazioni, che chiedevano profitti brillanti e dividendi adeguati, i manager delle banche nostrane si sono dati un gran da fare inannzitutto per puntellare i loro bilanci pericolanti.
Il menù degli interventi è ampio: taglio dei costi, con prepensionamenti per migliaia di dipendenti. Trading su Btp e obbligazioni proprie per gonfiare gli utili. E, infine, i banchieri hanno attinto a piene mani ai prestiti a tassi di favore della Banca centrale europea (66 miliardi incassati in totale dagli istituti nostrani) per poi investire il ricavato in titoli di Stato dal rendimento elevato e garantito, stringendo invece il rubinetto dei prestiti alle imprese, che nel corso del 2012 si sono ridotti di 38 miliardi. Grazie a questi provvidenziali interventi, sono riusciti a contenere al minimo indispensabile gli accantonamenti a copertura dell’onda montante dei crediti a rischio. E al governatore, che più volte nei mesi scorsi ha chiesto un taglio netto di bonus e compensi dei manager e una stretta sui dividendi, gli istituti di credito hanno fin qui dato risposte ritenute non del tutto adeguate dalla Banca d’Italia.
Bene così? Mica tanto. «Non si può andare avanti in questo modo all’infinito». Se non altro perché prima o poi la Bce smetterà di regalare la benzina che ha fin qui alimentato il sistema. Questo, in estrema sintesi, il verdetto della Banca d’Italia, che a partire dalla seconda metà del 2012, con una serie di ispezioni, ha passato al setaccio i conti dei 20 principali istituti nazionali. Nel mirino c’era soprattutto il portafoglio crediti.
Troppi rischi, hanno concluso i tecnici inviati dal governatore Visco. Come dire che i cuscinetti di risorse accantonati per coprire eventuali nuove svalutazioni dei crediti non sarebbero sufficienti ad affrontare con tranquillità un ulteriore peggioramento del quadro economico. Le riserve di bilancio vanno quindi aumentate e di molto. E già che c’era la Banca d’Italia ha anche chiesto di modificare i criteri di valutazione degli immobili ottenuti a garanzia dei prestiti. Questi interventi in corsa, richiesti dalla Vigilanza, hanno mandato in perdita i conti 2012 di molte delle banche citate.
Giusto per fare qualche esempio, gli accantonamenti a fondi rischi varati dal Banco Popolare su pressione della vigilanza sono quasi raddoppiati rispetto al 2011 e risultano superiori all’intero risultato della gestione bancaria realizzato l’anno scorso dall’istituto veronese (1,2 miliardi contro 876 milioni). E Intesa, che pure ha chiuso l’ultimo esercizio con un profitto di 1,6 miliardi, ha sacrificato più di metà del margine operativo per far fronte a rettifiche su crediti dubbi per 4,7 miliardi.
I banchieri ribattono che aumentare gli accantonamenti non fa altro che alimentare la crisi. È una manovra prociclica, per dirla nel gergo degli analisti. In sostanza le banche, già poco propense a finanziare le imprese, vedrebbero diminuire i loro margini di manovra proprio perché costrette a destinare maggiori risorse ai fondi rischi.
La Banca d’Italia però vede la situazione da un’altra prospettiva. «La prudenza che richiediamo nella valutazione dei crediti rappresenta un fattore di salvaguardia dell’integrità del capitale delle banche», ha scandito Visco a febbraio, davanti ai manager del credito riuniti per l’annuale appuntamento del Forex. «Analisti e investitori», ha aggiunto il governatore, «chiedono che i dati di bilancio riflettano l’effettiva qualità delle attività degli intermediari e forniscano indicazioni affidabili sui rischi in essere». Perché in caso contrario, se i mercati non si fidano più della reale consistenza delle attività iscritte a bilancio delle banche, allora sono guai, guai seri. Infatti, chi mai punterà del denaro su un istituto di credito quando c’è il sospetto che abbia gonfiato il valore dei propri asset, a cominciare dai prestiti alla clientela? Le banche nostrane hanno bisogno più che mai del denaro altrui. In gergo si chiama funding gap, cioè lo squilibrio tra i capitali impiegati e quelli raccolti sul territorio.
Per il momento, i banchieri si sono salvati grazie all’intervento di emergenza della Bce. A meno di improbabili proroghe, però, Francoforte chiuderà l’ombrello entro il 2014, data di scadenza dei prestiti. E allora addio liquidità da impiegare in titoli di Stato, per non parlare dalle potenziali perdite innescate da nuovi scossoni sui mercati finanziari. In questi giorni il caso di Cipro segnala come sia fragile la stabilità faticosamente raggiunta nei mesi scorsi. Basta la crisi di un Paese più che marginale nell’area euro per provocare una reazione a catena sui mercati. E se lo spread riparte, gli effetti della crisi del debito sovrano andranno a sommarsi a quelli provocati dalla recessione, a cominciare dalle perdite su crediti. Il tempo stringe, allora. I banchieri devono mettere ordine nei loro bilanci. Ne va della loro credibilità. Quel che ne resta.