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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

A PROVA DI MAMMA

Valeria ha 37 anni ed è alla terza gravidanza, dopo due aborti spontanei. E anche questa volta i rischi ci sono. Tra gli accertamenti da fare c’è il cosiddetto bi-test, un esame che stima il rischio di alcune anomalie cromosomiche del nascituro combinando un’ecografia al dosaggio di ormoni nel sangue materno. E quello di Valeria accende un campanello di allarme: dice che c’è un rischio un po’ più alto del normale che il bimbo sia affetto dalla sindrome di Down. In questi casi, in genere, il dubbio viene sciolto con un esame invasivo - villocentesi o amniocentesi - capace di fornire una mappa completa dei cromosomi fetali. Un esame dall’esito certo, ma che comporta un rischio concreto di aborto (un caso ogni 200-300). Fino a pochi mesi fa non c’era molta scelta: o procedere con l’amniocentesi, mettendo in pericolo la vita di un bimbo magari sano, o correre il rischio di vederlo nascere malato. Valeria certo non vuole rischiare un altro aborto. Si informa e scopre che, in realtà, un’alternativa c’è, un nuovo test che si esegue con un semplice prelievo di sangue materno. Non è ancora disponibile in Italia - bisogna recarsi in Svizzera o in Germania - e non è a buon mercato: il costo si aggira intorno ai 1.300 euro. Ma per lei è una chance in più e così si unisce alle 150 future mamme che dallo scorso agosto hanno varcato la frontiera e raggiunto il laboratorio privato ProCrea di Lugano, il più vicino al nostro Paese a offrire il Praenatest di LifeCodexx. La chance di Valeria, però, è solo una delle novità che si apprestano a rivoluzionare la medicina prenatale. Vediamole.
IL DOMANI IN UNA GOCCIA
Conoscere le condizioni del bimbo che verrà, ma senza rischi: è il Sacro Graal della diagnosi prenatale e ci si sta avvicinando a grandi passi. Era il 1997 quando Dennis Lo, oggi alla Chinese University di Hong Kong, scopriva che nel sangue materno circola Dna di origine fetale. E allora perché non recuperarlo e analizzarlo per scoprire eventuali malattie? Oggi la tecnica è realtà e in alcuni Paesi (Italia compresa) è utilizzata per sapere, già a 8-9 settimane di gravidanza, il sesso del nascituro (utile in caso di rischio di malattie legate al sesso). Sempre più vicina anche la diagnosi di malattie genetiche come la talassemia, finora eseguita a partire da villocentesi: le sperimentazioni hanno dato buoni risultati e si lavora a un test clinico.
Non solo: negli ultimi mesi diversi gruppi di ricerca hanno annunciato di aver sequenziato l’intero genoma fetale a partire da un prelievo di sangue materno. Il che significa che in futuro saremo in grado di identificare molto precocemente in un feto tutte le eventuali varianti genetiche associate a malattie. I tempi? «Non più di 2-3 anni per le prime applicazioni», secondo Faustina Lalatta, responsabile di Genetica medica del Policlinico di Milano.
Già oggi, però, è possibile cercare frequenti anomalie cromosomiche, in particolare le trisomie 21, 18 e 13, misurando nel sangue materno la quantità relativa del Dna di questi cromosomi rispetto a uno standard: se per esempio c’è un eccesso di Dna di cromosoma 21, significa che molto probabilmente il feto è affetto dalla sindrome di Down. Con un margine d’errore che si sta riducendo. «Non siamo ancora alla certezza, ma ci stiamo avvicinando», afferma Lalatta: «I primi test promettevano di identificare il 96 per cento dei casi di malattia, ora siamo già intorno al 99».
Il nuovo metodo viene dagli Usa, ma le aziende che lo propongono sono già lanciate alla conquista del mercato mondiale, a partire dalla parternship tra la pioniera del settore, la Sequenom, con la tedesca LifeCodexx. In Italia attualmente non circola nessuno di questi test, ma alcuni ospedali, come il Sacco di Milano, si stanno organizzando per eseguire il prelievo e inviare il sangue alle aziende per l’analisi.
Il business è enorme. Ma non manca un aspetto critico. «Questi test valutano al massimo tre anomalie cromosomiche. È vero che si tratta delle più diffuse, ma è chiaro che rimangono aperte altre possibilità di rischio», spiega la genetista: «Se per esempio in famiglia ci sono casi di ritardo mentale, potrebbe essere preferibile un’indagine più ampia o più specifica. Insomma, bisogna sapere esattamente che cosa offre l’esame, perché c’è il rischio di venire falsamente rassicurati e trovarsi poi con una malattia del bambino che non si era messa in conto». Ecco perché bisogna affidarsi a un genetista, che può aiutare a individuare caso per caso il test migliore.
INGRANDIMENTO MOLECOLARE
Stessa indicazione anche per il cosiddetto microarray, un nuovo metodo per l’analisi dei cromosomi fetali che analizza il Dna del nascituro confrontandolo su un apposito chip (il microarray, appunto) con del Dna normale, per individuare eventuali anomalie. La tecnica fornisce i risultati in tre giorni, contro i 15-20 che servono per un’analisi tradizionale. Ma è davvero confrontabile con il vecchio esame? Gli studi più recenti dicono di sì: a eccezione di alcune anomalie piuttosto rare, il microarray "vede" tutto quello che vede un test classico, e cioè tutte le alterazioni importanti della struttura cromosomica. Ma vede anche qualcosa in più, permettendo di diagnosticare patologie molto rare. È come una lente di ingrandimento più potente.
L’analisi con microarray è già ampiamente utilizzata in particolari condizioni. Ma molti laboratori privati la propongono come analisi di prima linea a tutte le donne che richiedono amniocentesi o villocentesi, assicurando una diagnosi precoce e sicura di un centinaio di malattie cromosomiche. In effetti, chiamando le segreterie di questi laboratori e chiedendo informazioni sul test tradizionale, si viene caldamente incoraggiate a eseguire al suo posto il nuovo microarray. Il costo? Dai 1.000 ai 1.800 euro.
Ma non sempre è opportuno, ed è il motivo per cui alcuni centri pubblici - come il Policlinico e il Sacco a Milano o il Policlinico Tor Vergata a Roma - sono scettici. Il fatto è che non conosciamo ancora il significato clinico preciso di tutte le anomalie che si possono osservare e c’è il rischio di individuarne alcune di cui non si conoscono le conseguenze. Il test si trasforma allora in un boomerang, che lascia mamma e papà nel terrore che prima o poi il bambino manifesti qualche terribile malattia. E c’è anche chi, di fronte a tanto stress, decide di interrompere la gravidanza. Per il momento, insomma, l’indicazione ufficiale è alla cautela: sì ai microarray in alcune situazioni, no come test di screening per tutte.
TUTTO NEL PRIMO TRIMESTRE
Non tutto, però, nel corso di una gravidanza si gioca sullo stato dei cromosomi fetali. Altre condizioni possono comprometterne l’esito: per esempio l’insorgenza di diabete gestazionale o di preeclampsia, una condizione molto pericolosa caratterizzata da ipertensione e presenza di proteine nelle urine. Anche in questo caso qualcosa si muove. «In genere, queste condizioni si manifestano nel secondo o terzo trimestre di gravidanza, quando ormai il danno è fatto. Ora, però, la tendenza della ricerca è di concentrare l’attenzione sul primo trimestre, per individuare segnali precoci che possano aiutare a prevenirle o a gestirle», racconta Giancarlo Di Renzo, della Medicina perinatale e della riproduzione dell’Università di Perugia. Altre ricerche riguardano sostanze presenti nel sangue materno, come l’ormone della crescita della placenta che è correlato a preeclampsia, oppure varianti genetiche associate a diabete.
Certo, siamo ancora all’inizio e non sempre ai successi della ricerca corrispondono soluzioni cliniche immediate. Nel caso del rischio preeclampsia, per esempio, si può suggerire una terapia preventiva con aspirinetta, ma non è chiaro quanto sia davvero efficace. Ciò che oggi è certo è che i segnali d’allarme precoce portano a intensificare i controlli e a proporre interventi preventivi nell’ambito dello stile di vita e della dieta. Già questo può fare molto.