Paolo Rodari, L’Espresso 29/3/2013, 29 marzo 2013
IL PAPA CHE SUSSURRAVA AL PAPA
Joseph Ratzinger torna all’antico. Dopo essere stato per ventiquattro anni, da prefetto della Dottrina della fede, consigliere per le questioni teologiche del suo predecessore Giovanni Paolo II, si appresta a svolgere il medesimo ruolo col successore Francesco. Una funzione che non ha precedenti, nonostante tutti in Vaticano insistano nel dire che il suo futuro è il ritiro, il nascondimento al mondo. Certo, ufficialmente scomparirà dalla scena, ma da dietro le quinte è pronto a consigliare sulle linee teologiche e sulla dottrina Jorge Mario Bergoglio, colui che non a caso nel Conclave del 2005, mentre cresceva a suon di voti la sua candidatura in opposizione a quella di Ratzinger, si stizzì. Non voleva essere visto come l’antagonista di un cardinale che stimava. «Non mi sento ancora pronto per l’elezione», disse per togliersi dall’imbarazzo.
Il ruolo di consigliere teologico. Non si tratta di una boutade. Ma della posizione che Ratzinger predilige per servire la Chiesa. Gli domandò lo scorso autunno Peter Seewald, il giornalista tedesco che con lui ha scritto il libro intervista "Luce del mondo": «Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?». La risposta fu inequivocabile: «Entrambi». Come a dire, sono uno spartiacque fra i due pontificati, e sia prima sia dopo gioco la mia parte, un passo indietro chi guida, a mio agio nei panni del suggeritore.
Francesco è un decisionista. Già da arcivescovo di Buenos Aires, conduceva la diocesi con piglio e praticità. Riceveva chiunque volesse incontrarlo, anche senza appuntamento. I preti potevano bussare a ogni ora: se era in casa li faceva entrare. Chiedeva loro di accomodarsi in un sobrio salottino all’ultimo piano del palazzo diocesano e poi li lasciava parlare sovente prendendo qualche appunto. E alla fine, senza rinviare a successive udienze, diceva: «Ho deciso in questo modo. Punto primo… Punto secondo…». E così via, fino a offrire la soluzione per lui migliore a ogni problema. Come allora, così Bergoglio fa anche in queste ore nella residenza di Santa Marta dove alloggia: i capi dicastero vaticani, come anche i responsabili degli istituti religiosi, si susseguono nel suo studio. Egli ascolta e poi dispone. E presto metterà mano a quella riforma della curia romana che in molti reputano indispensabile. Certo, dietro un’indiscussa capacità manageriale, non mancano i fondamenti teologici. Eppure lui, come prima di lui Karol Wojtyla, sulla linea teologica si lascerà portare per mano dal teologo Ratzinger.
Benedetto XVI quando era prefetto della Dottrina della fede incontrava Wojtyla una volta alla settimana. Fra i due, un continuo scambio di documenti più che di parole. Il Papa polacco gli lasciava i propri appunti, le bozze delle encicliche, i discorsi più impegnativi. E Ratzinger interveniva, note a margine che poi riconsegnava senza commentare a meno che non gli fosse espressamente richiesto. Con Bergoglio non cambierà molto. Seppure il mutuo scambio fra i due sarà più che altro verbale. Francesco a chiedere, Benedetto a rispondere.
Già i primi segnali vanno in questo senso. Non è un caso se le due personalità oggi maggiormente vicine a Bergoglio sono i due segretari particolari di Ratzinger: il maltese Alfred Xuereb, che gestisce i suoi incontri privati, e il tedesco Georg Gänswein, che in qualità di prefetto della Casa pontificia coordina le udienze di tabella. Entrambi fanno la spola fra Roma e Castel Gandolfo. Entrambi gestiranno la convivenza dei due Papi fra qualche settimana nel recinto delle mura leonine. Quando il sole calerà la sera oltre il colle vaticano, i giardini si spopoleranno dai turisti e dai dipendenti vaticani. Allora Francesco potrà scendere dal suo appartamento a Santa Marta, salire a fianco della basilica vaticana, oltrepassare il governatorato, prendere la rampa dell’Archeologia e, poco dopo la fontana dell’Aquila, bussare al monastero Mater Ecclesiae, la nuova dimora del suo predecessore. Qui, come è avvenuto sabato scorso a Castel Gandolfo nel primo incontro fra i due, non sarà Ratzinger ad avanzare proposte né a suggerire argomenti di discussione. Sarà Bergoglio a porre domande, chiedere lumi, ascoltare consigli.
Molto cambierà la curia romana nei prossimi mesi. A non cambiare però sarà il prefetto della Dottrina della fede, il tedesco Gerhard Ludwig Müller. Già curatore dell’opera omnia di Ratzinger, ha in mano i quattro dossier dottrinali più importanti per Bergoglio: non soltanto la questione lefebvriana e i rapporti ancora da risolvere con le suore "disobbedienti" americane, ma anche le linee dottrinali decisive circa l’ermeneutica del Concilio Vaticano II a cinquant’anni dalla sua apertura e il tema della fede nell’anno a essa dedicato. Parlare con Müller sarà per Bergoglio come parlare con Ratzinger, trovare dunque il giusto appoggio per condurre in porto, con le proprie capacità e fiuto teologico, ogni controversia.
Alla Dottrina della fede giace una bozza dell’enciclica di Ratzinger dedicata alla fede. Non è però un testo suo. Si tratta di pagine redatte dai teologi in forza a Müller per conto dello stesso Papa emerito. Lo scorso autunno egli chiese loro di «fare presto». Voleva pubblicare quanto prima un ultimo lascito: dopo le encicliche dedicate alle virtù teologali speranza e carità, una dedicata alla fede. Ma poi non è riuscito a intervenire sulle bozze. E il progetto si è arenato. Difficile dire se il nuovo Papa lo farà suo. Di certo al termine dell’anno della fede (il prossimo ottobre) egli dovrà dare la giusta chiosa con un intervento in merito non semplice. La "bozza Ratzinger" gli potrà dunque tornare utile. Non è un mistero per nessuno che l’enciclica Fides et Ratio del 1998 di Wojtyla aveva dietro molto del pensiero di Ratzinger. E poi il Vaticano II: Benedetto ritiene che il Concilio non sia stato assunto dalla Chiesa in tutta la sua portata. Fra i tanti nodi ancora irrisolti, quello della collegialità nella Chiesa. In merito la Costituzione dogmatica Lumen Gentium fu chiara. Tanto che sull’ultimo numero della "Civiltà Cattolica" è il canonista Gianfranco Ghirlanda a menzionarla scrivendo del «ministero petrino». Ghirlanda, gesuita di peso i cui testi, come tutti quelli della "Civiltà Cattolica", sono rivisti dalla segreteria di Stato vaticana, dopo aver sollevato perplessità sulla scelta di Ratzinger di chiamarsi «Papa emerito» - meglio «vescovo emerito di Roma», sostiene - ricorda questa volta a Francesco che tanto invece fatica a chiamarsi «Papa» prediligendo dirsi «vescovo di Roma», in che cosa consistono le potestà primaziali di chi guida la Chiesa. Il Papa, dice, ha piena potestà su tutta la Chiesa anche se questa potestà è vista in un’ottica di maggiore orizzontalità. Bergoglio guiderà senz’altro la Chiesa verso la collegialità, ma difficilmente lo potrà fare prescindendo dal parere del suo predecessore, anch’egli favorevole a un governo collegiale pur nel rispetto del Concilio.
Infine, gli scismatici lefebvriani che faticano ad accettare il Concilio tout court e le suore americane commissariate dal Vaticano perché spintesi a benedire la riforma sanitaria di Obama che prevede anche pratiche abortive: non sono che gli ultimi dossier, fra i più difficili, che Ratzinger lascia al successore. Dai quartier generali dei lefebvriani e delle suore - Econe in Svizzera e Silver Spring nel Maryland - arrivano segnali di attesa. Francesco non agirà in tempi brevi. E in ogni caso non lo farà prima che il suo predecessore faccia ritorno in Vaticano, nella residenza dove egli gli potrà fare visita lontano da occhi indiscreti.