Gigi Riva, L’Espresso 29/3/2013, 29 marzo 2013
QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI MARÒ
Giulio Terzi, l’ex ministro degli Esteri, ha capito di essere un uomo solo, un cadavere politico, domenica 24 marzo. Dei suoi due sottosegretari, con cui ha rapporti peraltro pessimi, uno, Staffan De Mistura, è in India ad accompagnare i marò al loro processo; l’altra, Marta Dassù, gli ha appena detto che non gli resta che dimettersi. Lo stesso suggerimento ricevuto il giorno prima, sabato, da Michele Valensise, segretario generale della Farnesina nominato nel maggio scorso per volontà del premier e da lui subìto. Con Mario Monti del resto è il gelo. E quanto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, basti dire che a metà febbraio l’aveva escluso dal viaggio negli Stati Uniti per incontrare Barack Obama con la scusa che si trattava di una «visita in forma privata». Uno schiaffo giunto alla fine di una serie di incomprensioni. Non è riuscito a farsi candidare in una lista Pdl alle politiche per le barriere innalzate da una parte del partito. I suoi grandi sponsor nell’ascesa all’esecutivo, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, sono reduci da una rovinosa sconfitta nelle urne.
Ha 66 anni il marchese Giulio Terzi di Sant’Agata da Bergamo e un grande futuro dietro le spalle. Avverte, nel suo stesso ministero, un’ostilità diffusa tra gli ex colleghi (viene dalla carriera diplomatica) che bollano il pasticcio indiano come «l’8 settembre della diplomazia», il punto più basso toccato dall’istituzione «dal dopoguerra in poi». La Farnesina è semivuota, quella domenica mattina. Terzi è nel suo ufficio e fa un bilancio della sua formidabile ascesa e della sua rovinosa caduta. È forse allora che decide per le dimissioni. Come un giocatore di poker pensa che un beau geste rivestito di retorica patria è l’ultimo asso che ha nella manica per strizzare l’occhio alla destra (suo riferimento politico fin da ragazzo). E non per caso, lasciato il ministero, va a casa del capogruppo Pdl alla Camera Renato Brunetta, zona del Santuario del Divino Amore. Cosa si dicano si può intuire. Da quel momento in poi il Pdl sposta decisamente la sagoma del suo bersaglio da Terzi al premier Monti: caccia grossa.
Brunetta probabilmente sa delle dimissioni da annunciare in modo reboante e irrituale il martedì in aula a Montecitorio e in diretta tv, ma da tenere segrete sino all’ultimo. Ignorano la mossa il Colle e Palazzo Chigi, nonostante i colloqui intercorsi fino al mattino prima dell’annuncio fatale per concordare i punti salienti di un discorso in cui non era prevista la frase capace di scatenare una rissa tra i Palazzi del potere: «Ero contrario a rimandare in India i marò, ma la mia voce è rimasta inascoltata».
Ci aveva già provato a gennaio, il ministro, come "l’Espresso" è in grado di ricostruire, a imporre la linea dura, durante la licenza natalizia concessa dalle autorità di Nuova Delhi ai fucilieri del Reggimento San Marco Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ammazzato due pescatori del Kerala scambiati per pirati il 15 febbraio 2012 mentre erano in servizio a bordo della nave "Enrica Lexie". Aveva scritto una lettera a Mario Monti con la quale proponeva questa soluzione: «Troviamo una procura compiacente che ritiri il passaporto ai due soldati e non li restituiamo». Monti aveva inoltrato la missiva a Napolitano che aveva stoppato l’iniziativa. Non si tradisce la parola data.
Nonostante il grave capo d’imputazione, la vicenda stava scivolando verso un compromesso onorevole per salvare la faccia alle due nazioni coinvolte. Solo ci voleva tempo per il rumore e l’emozione che l’episodio ha suscitato. Per Girone e Latorre era stato ottenuto uno stato di cattività non oppressivo. Potevano stare nella nostra ambasciata di Delhi, un vasto spazio comprensivo di un parco e anche di un ristorante esterno ma da cui si può accedere direttamente dalle nostre pertinenze. Scherzavano alla Farnesina: «L’unico problema sarà semmai quello di portarli fuori qualche volta la sera per farli svagare senza dare nell’occhio». Ai due sarebbe stata anche corrisposta l’indennità di missione, uno stipendio cioè assai più corposo di quello riscosso quando stanno in patria: perché comunque era chiaro che, almeno per un po’, non avrebbero potuto essere impiegati all’estero. Pur sempre una prigione, certo, ma con una serie di benefici per addolcirla.
Il 18 gennaio la Corte Suprema indiana decide che la giurisdizione per il processo spetta al Paese asiatico e decreta la creazione di un tribunale speciale per giudicare i marò. È la mossa che rimette in moto il machiavellismo di Terzi, convinto che tocchi all’Italia il verdetto perché l’incidente è avvenuto in acque internazionali e su una nave battente bandiera tricolore. La seconda licenza di quattro settimane, concessa il 22 febbraio per permettere ai fucilieri di votare, è la ghiotta occasione per rompere gli indugi. Trova buona sponda nel ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, un altro tecnico. La riunione decisiva è quella di venerdì 8 marzo e vi partecipa anche il ministro della Giustizia Paola Severino, incaricata di costruire un quadro giuridico che sostenga le nostre ragioni davanti alle prevedibili contestazioni. Due giorni prima, il 6 marzo, l’Italia con una nota verbale alle autorità di Nuova Delhi aveva chiesto che la controversia fosse risolta da un arbitrato internazionale.
Adesso si tratta di formalizzare lo strappo. I tre ministri avvertono Giorgio Napolitano il quale non può interferire nelle decisioni dell’esecutivo ed è convinto che Monti sappia tutto. Monti negherà ma pare altamente improbabile che il suo consigliere diplomatico Pasquale Terracciano non lo abbia informato. Bisogna adesso riandare al clima di quei giorni, con un’Italia uscita dal voto senza una maggioranza chiara, un governo in carica per gli affari correnti, un presidente in scadenza e i consiglieri dei Palazzi interessati o a fine mandato o già destinati ad altro incarico. È in quel quadro di caos e testa altrove che lunedì 11 marzo Terzi annuncia: «I marò non torneranno in India». La situazione precipita. La Corte suprema di Nuova Delhi impedisce al nostro ambasciatore Daniele Mancini di lasciare il Paese. La sera del 19 marzo e la mattina del 20 Mario Monti convoca due volte a palazzo Chigi il sottosegretario Staffan De Mistura, che ha la delega sull’Asia ma che dal suo superiore non è mai stato coinvolto in nessuna riunione riguardo ai soldati: gli affida il caso al fine di «trovare una soluzione amichevole con l’India», esautorando di fatto Terzi.
Giovedì 21 si riunisce il Comitato interministeriale per la sicurezza dove siede tra gli altri quel Giampiero Massolo, già segretario generale della Farnesina, arcinemico di Terzi e che pure fu in lizza per la poltrona degli Esteri. In quell’occasione è il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera a spendere le parole più estreme contro il colpo di mano della Farnesina perché l’India ha nel frattempo comunicato che, come ritorsione, adotterà misure per ostacolare l’interscambio commerciale. Tuona Passera: «Ci sono in ballo contratti per 7 miliardi di dollari!». Anche il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi si schiera a favore della restituzione di Girone e Latorre. Monti annuncia il dietrofront. De Mistura riporta in India i soldati. Di Paola e Terzi sono sconfessati. Il primo resiste al suo posto, il secondo no. Ha troppe altre colpe da farsi perdonare, inclusa quella di non aver mai creato una task force per una situazione tanto delicata e di aver sempre agito da solo. Sbatte la porta però con un intervento alla Camera che gronda valori militareschi. Tutto calcolato, uscita di scena con paracadute: gli applausi del Pdl e la promessa di una futura candidatura parlamentare da Ignazio La Russa.