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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

PERCHÉ MI SENTO VICINO AD ASSANGE

Qualche settimana fa sono stato a Londra. Dovevo incontrare una persona alla cui vicenda umana, pubblica, negli ultimi anni mi è capitato di pensare spesso. Una persona che ha modificato definitivamente il modo in cui intendiamo la comunicazione. Sto parlando di Julian Assange, che vive da quasi un anno nell’Ambasciata dell’Ecuador dove è stato accolto per evitare l’estradizione in Svezia che vorrebbe dire, a sua volta e con ogni probabilità, estradizione negli Stati Uniti. La reclusione ha mille volti, ha mille cause. Eppure nessuno di questi volti riesce a essermi familiare.
MI ASPETTAVO IN ASSANGE di trovare un uomo devastato, che non può incontrare la sua famiglia, che deve resistere all’accusa di stupro, un’accusa manipolata. E invece ho trovato un uomo equilibrato nonostante viva nella limitata metratura di un appartamento e del nostro incontro non ricorderò solo le informazioni che ci siamo scambiati, ma soprattutto quella sorta di pace zen che quando si vive come lui è difficilissimo se non impossibile raggiungere. Quando si vive rinunciando alla propria quotidianità, dovendo mentire per la propria sicurezza, camminando poco e circondato sempre da uomini in armi, in genere si finisce con il diventare nevrotici, bipolari, paranoici, totalmente in balia della solitudine. Difficile, quasi impossibile, uscire da questo guado.
Assange, invece, sembra essere riuscito a salvarsi, a tenere in qualche modo lontano da sé il personaggio pubblico e le accuse a lui rivolte. Io no, o almeno, non ancora. Bisogna imparare a capire che gli attacchi continui, la bile, l’invidia, la ferocia, nascono e si nutrono perché si è esposti. Guardando lui ci si rende conto davvero che i fulmini si abbattono sulle vette. Ed è proprio per parare i fulmini che scrivo. Mille volte ho pensato che il nostro Paese oggi ha bisogno di evasione. Di racconti d’amore, di speranza. Mille volte ho pensato che questa non è più l’Italia di Gomorra. Un’Italia che voleva approfondire, capire. A distanza di sette anni mi convinco sempre di più che questa sia l’Italia del "sappiamo troppo, ora basta, non ne possiamo più".
IO CREDO CHE LO SCRITTORE sia tante cose, abbia mille volti, inclinazioni, desideri, urgenze. Non debba cambiare il suo mondo qui e ora. Credo che il lavoro dello scrittore sia lento, che in maniera paziente debba scavare, guadagnarsi un diritto di cittadinanza. Per molto tempo ho meditato su che tipo di testo scrivere. So che parlare di criminalità organizzata, dei cartelli egemoni a latitudini lontanissime dalla nostra, può sembrare un esercizio in controtendenza. Raccontare le storie di chi ha corrotto le democrazie a migliaia di chilometri da noi, a molti sembrerà eludere le priorità del momento. Sarebbe ingenuo. Un omicidio in Mexico cambia la quotidianità a Berlino. La scelta di un boss russo, cambia il futuro di un’azienda a Roma. Un governo che stenta a formarsi, un’Europa minacciata dall’ennesima voragine economica tutto questo apre agli affari criminali piste privilegiate di penetrazione. Mentre scrivevo Gomorra, avevo l’ambizione di raccontare non semplicemente Napoli o la Campania, no. Volevo raccontare il mondo attraverso Napoli. Studio e scrivo. L’unica cosa che faccio e mi tiene in vita, nonostante tutto. Ma lo scrittore, diceva Giorgio Manganelli, "sceglie in primo luogo di essere inutile", sceglie di mettere per iscritto le proprie ferite. E la mia più grande ferita resterà sempre la mia terra, resterà sempre essere nato e cresciuto in una terra condannata. Ecco perché scrivo di terre condannate, di luoghi dove la democrazia resta un sogno irrealizzato, ecco perché la letteratura diventa, si fa, politica. Diventa chiamare tutto con il proprio nome, anche quando sai che potresti inventarne tanti, inventarne altri, per non avere guai, per non dover verificare ogni singola parola. Ma perché inventare, continuo a ripetermi da anni – da sempre – dalla prima volta che ho messo penna sopra il foglio: la realtà è tanto più incredibile di ogni finzione e riesce a creare mondi che l’immaginazione considererebbe improbabili.