Evgeny Lebedev, Panorama 28/3/2013, 28 marzo 2013
NOI CHE VESTIAMO ALL’OLIGARCHICA
La casa nella quale sono cresciuto era piena dei fantasmi della tirannia sovietica. Quando i miei genitori vi si stabilirono, Nikita Krusciov era un loro vicino e Vjaceslav Molotov viveva ancora lì: per noi era solo un altro uomo anziano che entrava dal portone con passo strascicato. Il nostro appartamento era situato in un palazzo vicino al Cremlino riservato ai leader della nazione. Era una costruzione imponente, ma persino lì i servizi di base erano essenziali. I cavi elettrici erano fissati con ganci alla carta da parati e all’epoca della mia nascita si cucinava ancora su una stufa in un angolo della stanza.
Al terzo piano c’era un uomo in completo grigio sempre di guardia; fumava sigarette e osservava chiunque passasse. Supponevamo che fosse del Kgb. Anni dopo, quando si verificò il collasso del sistema sovietico, scoprimmo che in tutte le nostre stanze, ci venne detto, erano installate delle «cimici».
Quando nacqui, nel 1980, i miei genitori erano due giovani studenti poco più che ventenni, ma grazie al mio nonno paterno, che era a capo del dipartimento di biologia dell’Accademia sovietica delle scienze, vivevamo nel cuore dell’élite moscovita. Ricordo le ristrettezze e gli scaffali vuoti. Io e mia madre facevamo la coda per ore per procurarci i generi basilari: un’abilità tutta sovietica. Fu solo negli anni 80 avanzati che mio padre riuscì a conquistare un’automobile, una Lada quasi sempre guasta. Un anno, durante un viaggio a Volgograd (la ex Stalingrado), ci lasciò a piedi, dato che l’arrivo di un pezzo di ricambio si fece attendere vari giorni.
Come molte altre famiglie dell’Urss, il nostro rapporto con il comunismo era insolito e controverso. Il nonno di mia madre durante la guerra era stato un alto ufficiale. Aveva potere e prestigio, ma arrivò anche la paura, con cui si doveva confrontare qualsiasi ufficiale di alto rango di quel periodo. Persone con le quali aveva lavorato furono deportate nei campi forzati solo per essere arrivate al lavoro con alcuni minuti di ritardo o per non essere state in grado di fornire immediatamente a memoria l’esatta informazione che un funzionario di partito di grado superiore aveva richiesto. Una volta scoprì che al lavoro era stato sottratto del denaro da una cassaforte. Era talmente terrorizzato da ciò che avrebbe potuto accadere, se la notizia fosse trapelata, che utilizzò soldi propri per coprire l’ammanco, pagando i salari con i suoi miseri risparmi.
Nel 1952 il suo superiore Anastas Mikoyan, probabilmente il meno sgradevole dei sanguinari soci di Stalin, cadde in disgrazia e venne attaccato aspramente durante il congresso del partito. Se fosse stata ordinata un’epurazione, probabilmente il mio bisnonno si sarebbe trovato sulla lista dei condannati a morte. Fino al suo ultimo giorno conservò la certezza che solo la morte di Stalin, avvenuta cinque mesi dopo, l’avesse salvato e continuò a essere troppo terrorizzato per parlare di quel periodo. Mio padre cercava di fargli domande, ma lui lo respingeva con un gesto della mano, indicando gli angoli della stanza da dove coloro che erano in ascolto avrebbero potuto sentirlo e arrestare tutti.
Ciò nonostante, le mie nonne erano entrambe grandi sostenitrici del comunismo e lo sono tuttora. Ciò che mi sorprende è che ancora oggi credano in Stalin. Entrambe raccontano con orgoglio di come abbiano pianto alla notizia della sua morte. Non è che non sappiano che cosa è accaduto sotto il suo regime (la carestia, i campi di lavoro, la paura), però sono convinte che Stalin non fosse al corrente di ciò che stava succedendo. Erano stati commessi errori e la situazione era sfuggita di mano, ma la colpa non andava attribuita al grande capo. Un’opinione non inconsueta in Russia: forse si tratta semplicemente del desiderio di quella stabilità e sicurezza che il comunismo prometteva.
All’epoca in cui nacqui io, mio padre Alexander aveva smesso di credere nel comunismo. In giro per il nostro appartamento teneva nascosti i libri proibiti di Aleksandr Solgenitsin. Vedeva lo stato in cui versava il paese e ne incolpava il sistema. Eppure questi dubbi non gli impedirono, dopo la laurea, di iniziare a lavorare nel servizio di intelligence. Si guadagnò immediatamente la reputazione di essere una delle menti più acute del suo gruppo, con una memoria prodigiosa e un occhio straordinario per i dettagli. Per un uomo giovane e ambizioso come mio padre il servizio rappresentava una proposta allettante, in cui intravedeva un’opportunità per viaggiare, progredire e persino riuscire a operare dall’interno a favore di un cambiamento. Da bambino non sapevo quale fosse il suo vero lavoro. La versione ufficiale era che fosse un diplomatico. Scoprii la verità solo all’età di 11 anni, quando in un cassetto trovai alcune medaglie che gli erano state conferite per il servizio prestato al paese. Dovetti giurare di mantenere il segreto, ma era un segreto che conservavo con orgoglio. Iniziai il mio percorso scolastico in una scuola materna d’élite di Mosca. Ci veniva ordinato di fare ginnastica, di dormire al pomeriggio, di mangiare qualsiasi cibo ci venisse messo davanti. Una volta caddi e mi ferii malamente al naso. Sapevo che sarebbe stata una pessima idea chiedere aiuto al personale della scuola materna, quindi scappai nel bosco e mi nascosi.
La mia prima vacanza la trascorsi in quella landa desolata e radioattiva che era Chernobyl. Nel 1989, tre anni dopo il disastro nucleare, mio nonno stava compiendo ricerche sugli effetti delle radiazioni sulla fauna di quella zona e mi condusse con sé. Ricordo ovunque veicoli abbandonati e distese di funghi giganteschi. Sparammo a un’anatra su un lago e la controllammo con un contatore Geiger. I valori registrati erano normali, quindi accendemmo un fuoco, la cucinammo e la mangiammo.
Quando avevo 8 anni, mio padre ottenne un incarico presso l’ambasciata di Londra. A 29 anni era incredibilmente giovane per un posto così importante. Passava la maggior parte del tempo confinato in ufficio, dove leggeva quotidiani, occasionalmente incontrava alcune persone e poi scriveva a casa per raccontare che cosa accadeva.
L’arrivo in Gran Bretagna fu uno shock. Era tutto così variopinto: il modo in cui le persone si abbigliavano, le automobili, la scelta di articoli nei negozi. La libertà di parlare, la libertà di acquistare e la libertà di spostarsi lo facevano sembrare di un altro pianeta e io me ne innamorai all’istante. Adoravo veramente tutto del Regno Unito, persino il clima.
Ogni estate tornavamo in Russia e fu durante una di queste vacanze che si verificò il crollo dell’Urss. Ricordo che avevo portato il nostro husky siberiano a fare una passeggiata quando i carri armati percorsero la strada superando il nostro appartamento e parcheggiarono accanto al Cremlino. Poi una sera, poco tempo dopo, stavamo tornando a casa dopo avere fatto visita a mio nonno quando venne imposto il coprifuoco: eravamo in metropolitana; iniziarono a fare confluire le persone verso le uscite e le stazioni vennero chiuse. In strada squadre di soldati pattugliavano le vie muniti di mitragliatrici. Era la notte del tentato colpo di stato contro Mikhail Gorbaciov, quando la vecchia guardia fece l’ultimo disperato tentativo di rovesciare le sue riforme.
Mia nonna era assolutamente favorevole al colpo di stato: voleva salvare l’Unione Sovietica a ogni costo. Mio nonno disse che, se avessero iniziato a colpire i comunisti, la nostra casa sarebbe stata la prima a essere attaccata, dal momento che era zeppa di funzionari, comandanti militari e leader di partito. I miei genitori, invece, si unirono alle proteste presso la Casa Bianca, sede del Soviet supremo, quando i moscoviti si radunarono per rendere chiaro che non ci sarebbe più potuta essere alcuna marcia indietro.
Prima che la crisi fosse finita dovemmo rientrare a Londra e trascorse un anno prima che facessimo ritorno a Mosca. A quel punto, l’Urss si era dissolta e nulla era più come prima. Le strade non avevano più gli stessi nomi. I punti di riferimento erano svaniti. Siti storici venivano demoliti per far posto a nuovi edifici mostruosi. È una caratteristica molto russa questo desiderio di cancellare completamente il passato e ricominciare da zero. Tutto ciò che la gente conosceva venne totalmente stravolto.
La Russia era divenuta un luogo selvaggio. Ovunque si sentiva parlare di morte. La gente veniva fatta spogliare sotto la minaccia delle armi solo per impadronirsi dei suoi vestiti. Mio nonno prese a portare con sé, nascosta all’interno della giacca, una pistola della Seconda guerra mondiale. Nei weekend andavamo in campagna e lui mi insegnava ad adoperarla, per ogni eventualità.
Prima le case avevano porte di legno sottile e l’ingresso dei palazzi veniva lasciato aperto. Ora enormi porte di ferro facevano ovunque la loro comparsa. Porte antiproiettile, a doppia parete, in acciaio. E la gente si comportava in modo così strano... Ogni luogo che non fosse chiuso a chiave iniziò a riempirsi letteralmente di escrementi. La gente prese l’abitudine di fare i propri bisogni ovunque trovasse uno spazio disponibile; se ne potevano vedere le tracce addirittura negli ascensori o negli ingressi dei palazzi che non erano stati chiusi a chiave.
Posso immaginare che il crollo del comunismo abbia provocato una gioia immensa nei tedeschi dell’Est o nei cechi, ma in Russia le cose erano diverse. La Russia era stata una superpotenza e i russi sono un popolo orgoglioso. Poi, all’improvviso, il paese cadde a pezzi.
Mio padre rassegnò le dimissioni dal suo incarico e si diede al lancio di imprese commerciali. Aveva un desiderio insaziabile di provare tutte quelle esperienze che non gli erano state concesse durante il comunismo. Adorava questo processo, voleva prendere tutte le cose fantastiche che aveva visto in Occidente e provarle in Russia. Se la cavava bene e in breve tempo ebbe una nuova automobile, un autista e la sicurezza. Sapeva quanto tutto ciò fosse pericoloso. Negli anni 90 a Mosca il modo in cui la gente si procurava gli affari non consisteva nel lavorare meglio dei propri concorrenti, ma nell’eliminarli fisicamente.
Era il 1997 quando per la prima volta avvertii che il caos si stava insinuando nella mia stessa famiglia. Dietro mia richiesta, frequentavo un college in Gran Bretagna, però al mio ritorno durante le vacanze mi resi conto che eravamo in pericolo: mio padre era stato convocato dalla polizia per essere interrogato. Sapeva perfettamente che cosa era accaduto. I suoi rivali in affari avevano corrotto dei funzionari di alto grado affinché si occupassero di lui e lo costringessero a chiudere l’attività. Era una cosa che succedeva di continuo, mi disse. Questo non impedì alla polizia di presentarsi poco tempo dopo alla porta dell’appartamento di mio nonno e di ridurre tutto in brandelli, mentre io e mia madre ce ne stavamo lì a guardare.
Fu solo l’inizio. Qualche tempo dopo trovammo una pallottola conficcata nella parete dietro alla sedia di mio padre in ufficio. Il colpo era stato esploso da un appartamento situato dal lato opposto della strada. Un’altra volta ricevemmo una soffiata che ci avvertiva di un tentativo di assassinio. Una ricerca condotta negli edifici circostanti rivelò la presenza di un lanciagranate accanto a una finestra vicina.
Mio padre rifiutò di andarsene. Non riusciva ad accettare di non poter essere libero in Russia. Cominciò a usare il proprio denaro per finanziare la stampa indipendente, in particolare Novaya Gazeta, dove i giornalisti vengono assassinati con una frequenza terrificante solo per avere scritto la verità. Nel frattempo la polizia continuava a perseguitarci. Ancora oggi mio padre si rifiuta di cedere il passo, incurante di quanto potrebbe costargli, quando si trova davanti all’ingiustizia o alla corruzione. È un patriota e ritiene che il suo paese meriti di essere migliore di quanto è. Anch’io sono un patriota. La Russia è la terra dove sono nato e ne vado fiero. Ma vivo in Gran Bretagna e il mio lato britannico mi aiuta a mettere nella prospettiva corretta le sfide che la Russia deve affrontare. Il mio lato russo, invece, mi mostra con quanta superficialità vengano considerate le libertà di cui si gode in Gran Bretagna dalle persone che ci vivono. È la mia particolare percezione della fragilità di queste libertà che mi ha portato a dedicarmi all’Independent, all’Evening Standard e alla Journalism foundation, che sostiene e promuove il giornalismo libero e indipendente.