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 2013  marzo 28 Giovedì calendario

GLI USA MOLLANO I COLLABORATORI


Gli americani hanno lasciato soli i loro collaboratori iracheni sul terreno di guerra. La denuncia viene da Kirk W. Johnson, fondatore dell’associazione List Project ed ex coordinatore dell’agenzia Usa per la ricostruzione nella città di Fallujah, in Iraq. In migliaia hanno rischiato la vita per aiutare le forze armate di Washington soprattutto come interpreti e autisti.
Essi hanno accettato di essere reclutati e di recarsi quotidianamente nella zona grigia di Bagdad per mettere a disposizione le loro competenze.
Ma ora, a più di un anno dal ritiro degli Stati Uniti dal paese mediorientale, la sorte di questi vecchi collaboratori appare più che mai incerta. In patria vengono considerati né più né meno che traditori e, d’altro canto, Washington non li accoglie come rifugiati perché teme che possano essere diventati terroristi.
La vicenda di Omar, uno dei tanti assoldati dagli Usa, è emblematica di quanto sta accadendo in una nazione dove il caos regna ancora sovrano. Egli lavorava come addetto ai rifornimenti delle truppe: un lavoro semplice. Dopo cinque anni di collaborazione, a metà 2011 Omar richiese un visto da rifugiato, sei mesi prima che il presidente Barack Obama annunciasse la fine delle ostilità.
Nei mesi successivi egli continuò a sollecitare il governo americano, riportando le continue minacce di morte che gli giungevano dai suoi concittadini iracheni e chiedendo disperatamente di potersi spostare in Giordania per mettersi in salvo. Ma la burocrazia a stelle e strisce non faceva altro che rimandare la questione, richiedendo a Omar ulteriori informazioni che, in realtà, egli aveva già inviato a Washington.
La tragedia era dietro l’angolo. Nel luglio scorso, dopo avere pranzato con la sua famiglia, Omar uscì di casa per fare una telefonata. Dopo un paio d’ore il suo corpo fu ritrovato decapitato. Al funerale, suo fratello ricevette minacce di morte e la stessa cosa accadde poco tempo dopo alla vedova di Omar. L’organizzazione List Project sta cercando di trasferire la sua famiglia (la moglie e il figlio di cinque anni) fuori dall’Iraq, ma le prospettive non sono esaltanti. Attualmente ci vogliono due anni affinché un iracheno, che si sia rivolto all’ambasciata americana a Bagdad, riesca a ottenere un colloquio.
I tempi si sono allungati notevolmente. È stato calcolato che, anche se il Congresso americano autorizzasse nuovamente il programma di accoglienza dei collaboratori iracheni, al ritmo attuale ci vorrebbero 17 anni per smaltire tutti gli arretrati. Il loro futuro, dunque, è sempre più difficile. Un programma speciale di visti, studiato per far fronte all’emergenza, venne annullato nel 2010: l’allora ambasciatore Karl Eikenberry avvertì che l’operazione visti avrebbe sommerso di lavoro il personale.
La situazione non è migliorata successivamente: ora il ritmo è di dieci visti al mese rispetto all’obiettivo iniziale di 1.500 all’anno. Johnson conclude criticando il fatto che un interprete iracheno, che si è esposto in prima persona per gli americani, debba provare di essere innocente, di non essere un terrorista, al di là di ogni dubbio burocratico. Omar era pulito, è stato ammazzato e adesso il suo sangue è quanto mai eloquente.