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 2013  marzo 15 Venerdì calendario

COSÌ HO SCOPERTO LA FORMULA DELL’ANIMA


MADISON (WISCONSIN). Giulio Tenoni è uno con un’intensa vita notturna. L’altra sera, per dire, si è sognato un amico ricercatore al Mit che gli faceva la seguente domanda: «Ma se io potessi fare un clone di un essere umano, in totale sarebbero due coscienze o resterebbe una?». Lui, nel dibattito onirico, gli ha risposto che non potrebbero essere due perché ciò violerebbe il principio degli indiscernibili di Leibniz, per il quale, se non c’è modo di distinguere due enti, allora in realtà è uno solo. Lo dice ridendo, come se ti raccontasse di essersi immaginato in vacanza su un’isola caraibica con Scarlett Johansson.

Ognuno ha i sogni che si merita. E da oltre una decina d’anni quest’uomo, giorno e notte, lavora a una teoria della coscienza che possa spiegarla in termini scientifici. Non parlerebbe d’altro, e non vorresti che smettesse mai. Si ferma un istante solo perché, di ritorno da una settimana di conferenze in Canada, si è accorto di essere in grave riserva di benzina. E il suo pick up Ford Raptor, una via di mezzo tra un’auto e un blindato, beve come un camion. Non si avvistano distributori. La prognosi del serbatoio è «autonomia di nove chilometri». Meglio uscire o proseguire? Finalmente il navigatore torna a funzionare e si può chiedere a lui. «Ecco, per esempio, questo aggeggio non prova emozioni ma se la cava, in questo scenario, molto meglio di noi. Ha una consapevolezza dell’ambiente in cui ci muoviamo. Discrimina tra più possibilità. Ci consiglia per il meglio. In che rapporto sta, questa forma di intelligenza, con la coscienza?».
La strada che, nei secoli, ha provato a condurre a una definizione convincente di «anima» si è dimostrata accidentatissima. Il busillis è: come è possibile che un insieme di fenomeni fisici (vedere una foto, ascoltare una canzone, mangiare un dolcetto burroso a forma di conchiglia), generino le esperienze soggettive di un amore andato in frantumi, una vacanza entusiasmante o una malinconia proustiana? I fatti e le sensazioni sembrano quantità incommensurabili. Nel XVII secolo Cartesio, convinto sostenitore della separatezza tra corpo e mente (dualismo), aveva individuato nella ghiandola pineale il ponte che congiungeva i due mondi. All’interno di quel fagiolo nel mezzo della testa accadeva l’inesplicabile magia che trasformava una madeleine nell’innesco per un’esplosione di struggimento per le cure materne. Però agli scienziati la pista magica non poteva bastare. La coscienza, alla stregua di qualsiasi altro fenomeno cognitivo, andava spiegata dalla fisiologia del cervello (riduzionismo). Entrambi gli approcci, per il filosofo australiano David Chalmers, si concentrerebbero però sul «problema facile». Se anche si localizzasse un interruttore dell’anima resterebbe intatto il «problema difficile». Ciò che il filosofo Joseph Levine chiama «il gap di spiegazione», ovvero capire come tutti questi processi biologici, individualmente intellegibili, si possano fondere e tradurre in un’esperienza soggettiva coesa. E qui arriva Tononi, nato a Trento cinquant’anni fa, emigrato a Pisa per laurearsi in psichiatria al Sant’Anna e da lì a New York per lavorare con il premio Nobel Gerald Edelman, finalmente rilassato alla guida del suo suv rifocillato.
Partiamo dalla sua definizione: «La coscienza è la cosa che se ne va quando cadi addormentato in un sonno senza sogni. Oppure sotto l’effetto dell’anestesia». Perché mentre sogni sei cosciente, solo il tuo corpo è temporaneamente paralizzato. E neppure la sedazione è garanzia totale di incoscienza. Tant’è che esiste l’inquietante, e poco noto, fenomeno della «consapevolezza sotto anestesia», per cui una o due persone su mille si svegliano durante un’operazione e si rendono perfettamente conto di ciò che sta succedendo. Non possono parlare, essendo i loro muscoli fuori uso. Né i chirurghi possono accorgersene perché, da protocollo medico statunitense, gli occhi sono chiusi da un cerotto, per evitare danni accidentali durante l’intervento. Tuttavia capita. E tutte le soluzioni inventate sin qui per evitarlo si sono dimostrare insufficienti.
Anche su questo punto le intuizioni del neuroscienziato italiano, che dirige il centro sul sonno e la coscienza dell’Università del Wisconsin e ha declinato una quantità di offerte tra cui Harvard perché la neve di queste parti lo fa sentire a casa, potrebbero rivelarsi decisive. Ma prima, semplificando con l’accetta una serie di passaggi analitico-matematici che lui chiama «banalità», ma saturano pericolosamente la larghezza di banda del cronista, gli elementi fondamentali della teoria. Che, come ha spiegato nel libro Phi. A voyage from the brain to the soul («Phi. Un viaggio dal cervello all’anima», che l’entusiastica recensione del Wall Street Journal paragona al De Rerum Natura di Lucrezio), si riassumono nell’idea di coscienza come «informazione integrata». Procediamo per gradi, che non è una passeggiata. «Per prima cosa la coscienza è informazione. Ogni momento della vita ci fornisce un campionario praticamente infinito di possibili esperienze, diverse da quelle successive. Il nostro cervello distingue tra un film di Chaplin e una patatina. Ma anche tra un fotogramma e l’altro di Tempi moderni. Ciascuno di questi eventi viene registrato e metabolizzato come esperienza singola». La somiglianza con un computer è evidente.
Altrettanto dovrebbero esserlo le differenze. «Pensate a un fotodiodo, ovvero una specie di lampadina, che ha due stati possibili: acceso o spento, uno o zero, nella sintassi binaria dell’informatica. Per questo sensore il buio è "ciò che non è luce". Un’esperienza con un valore informativo molto limitato. Nel caso degli esseri umani invece il buio è uno stato diverso da trilioni di possibili altri stati: dalla luce rossa, da quella blu, da una forma o un’intensità anziché un’altra, e così via. Ha un valore informativo infinitamente maggiore. Diciamo, da una parte varrà un bit, dall’altra miliardi. Questa densità, questa capacità di discriminare è un prerequisito essenziale della coscienza». Però non basta. Negli umani queste informazioni vengono percepite in maniera integrata. «Se vediamo una palla rossa, non si può separare la forma dal colore. O, sentendo una parola, il suono dal suo significato. È la caratteristica che Kant chiamava "appercezione trascendentale": la funzione cognitiva che, a partire dalle percezioni sensibili, le "pensa", unificandole e dando loro senso. I computer non funzionano cosi. In un’immagine digitale ogni singolo pixel è un’unità di informazione. Se si "cancellano" metà dei pixel, l’immagine perde qualità ma si vede ancora. Perché ogni pixel è autonomo, non ha coscienza dell’altro».
Alla luce di questi due assiomi principali Tononi imposta un’equazione apparentemente in grado di calcolare il tasso di coscienza di un organismo. L’unità di misura che tiene insieme informazione (l’abilità di discriminare tra tanti possibili stati) e integrazione (il livello di comunicazione interno al sistema) è espresso dalla lettera greca phi, seguita da un numero che quantifica, appunto, il grado di coscienza. E qui torniamo alla spaventevole eventualità di svegliarsi sotto i ferri. Nel suo laboratorio Tononi sperimenta una specie di pistola a onde elettromagnetiche, il Transcranial magnet stimulation, adoperata insieme a un elettroencefalogramma. Quando spara una frequenza in una zona specifica del cervello di una persona cosciente, l’effetto registrato dall’elettroencefalogramma si riverbera, come increspature di un sasso lanciato nell’acqua, su varie altre zone. Quando la persona è incosciente, solo la zona colpita reagisce. «Facendo un’analogia col traffico di una città come Roma, nel primo caso un ingorgo a Piazza Venezia ha effetti sulla viabilità del centro storico e oltre. Nel secondo caso resterebbe un problema circoscritto». Se 5, per dire, è il valore-soglia di phi per la coscienza, si potrebbe monitorare a intervalli regolari l’attività cerebrale di un paziente per evitare drammatici risvegli. O per prendere decisioni cruciali nei casi di pazienti in stato vegetativo, come Eluana Englaro.
Basterebbe forse questo per trasformare l’ipotesi del neuroscienziato trentino, una volta verificata, nella candidatura al Nobel. Nel 2010 ha presentato una richiesta di brevetto, ma non è la ricaduta pratica l’aspetto che gli sta più a cuore. Quando nel salotto della sua cinematografica casa di legno in un bosco innevato vicino a Madison si illumina citando la teoria dell’entropia di Shannon, che quantifica l’informazione contenuta in un messaggio desumendola dalle variabili al suo interno (più imprevedibilità uguale più informazione). Oppure quando lascia freddare il caffè scaldandosi davanti a ermetiche visualizzazioni matematiche del comportamento statistico del phi, capisci che la sua partita è anche logico-formale. Cartesio è rimasto intrappolato nel guado tra res cogitans e res extensa. Per Hume, come per tanti neuroscienziati moderni, la coscienza altro non era che la somma di vari pezzi di conoscenza esperienziale. Kant era andato avanti, ma senza formalizzare un’equazione. Tononi non ha dubbi su un punto: la coscienza è maggiore della somma delle sue parti. Impostare la formula dell’anima è la sua scommessa. Poche sono più difficili, nessuna è più ambiziosa.

Riccardo Staglianò