Piero Ostellino, Corriere della Sera 28/03/2013, 28 marzo 2013
ITALIA LONTANA DALLA MODERNITA’
Giuseppe Bedeschi — docente di Storia della filosofia all’Università La Sapienza di Roma e uno degli intellettuali liberali di punta del Paese — aveva pubblicato, nel 2010, uno splendido saggio nel quale descriveva, e criticava, il giudizio negativo di Rousseau sulla rivoluzione scientifica e razionalista, sull’affermazione dello spirito borghese, di quello capitalista e mercantile, in una parola, sui primi albori del mondo contemporaneo (Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, Le Lettere).
Ora, va in libreria un altro bel libro di Bedeschi — La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Rubbettino, pp. 353, 19 — che, in filigrana, ripropone, in chiave di storia del nostro Paese, lo stesso percorso disegnato da Rousseau. Fin dal primo capitolo, sulla nascita della Repubblica come prosieguo della Resistenza antifascista; quindi, sui lavori della Costituente e sulla promulgazione della Costituzione, la storia dell’Italia repubblicana che emerge dal racconto è anch’essa una sorta di rifiuto della Modernità in nome di un’idea della convivenza civile sulla quale si sono successivamente accanite, per dirla con Hegel, le «dure repliche della storia». La nostra Costituzione, nelle parole di uno dei costituenti, Piero Calamandrei, è «una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata». Quale sia stata, poi, la rivoluzione mancata lo si sa: il fallito tentativo comunista di portare l’Italia — prima attraverso la lotta armata durante la Resistenza, poi, pacificamente, per via elettorale — nella sfera sovietica, come aveva fatto l’Armata rossa con la forza nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Che cosa sia la rivoluzione promessa è anche presto detto: è il compromesso costituzionale mal riuscito fra una democrazia (vagamente) liberale e una democrazia (tendenzialmente) socialista. La Costituzione non è stata, infatti, un «trattato di pace» fra le due Resistenze — quella comunista e quella democratica, ovvero fra gli ideali liberali e il totalitarismo — che avevano sconfitto il fascismo, ma un fragile «armistizio» che perdura tuttora.
Dal 1946 al 1993, durante l’intero arco di tempo ben raccontato dal libro di Bedeschi, l’Italia ha costantemente oscillato fra la democrazia mancata e quella promessa, senza trovare un punto di equilibrio nella nascita e nello sviluppo di una democrazia liberale compiuta. Così — sulle orme della critica di Rousseau al (suo) mondo, «come era», in nome del mondo nel quale era vissuto — la nostra cultura politica, legittimata dallo stesso dettato costituzionale, è stata, e rimane, il sistematico rifiuto di far entrare il Paese nella Modernità, accettandone principi e prassi, in nome di un «dover essere» del quale la storia ha fatto giustizia. È, del resto, in questa chiave che si spiegano: 1) il successo della Democrazia cristiana del 18 aprile 1948, frutto del voto popolare, soprattutto delle donne per lo più cattoliche, contro le intenzioni della maggioranza degli intellettuali di formazione azionista e favorevoli a una soluzione comunista; 2) la sottovalutazione dello straordinario contributo morale e politico di un grande cattolico, e liberale, come Alcide De Gasperi e di un grande liberale, e cattolico, come Luigi Einaudi, alla rinascita dell’Italia e al suo ingresso fra i Paesi capitalisti, di mercato e democratici dell’Occidente; 3) i rigurgiti antimodernisti, diciamo pure irrazionalistici, emersi a seguito delle ultime elezioni e delle difficoltà di costituire un governo.
Le parole con le quali Laura Boldrini, neopresidente della Camera, si è insediata — «Ho accettato di candidarmi per un progetto nuovo di società (…). Non c’è sviluppo senza diritti, non c’è ricchezza senza diritti» — farebbero ancora dire a Karl Marx «io non sono marxista», proprio perché negatrici della storia stessa della evoluzione dell’Italia verso la Modernità; che postula la crescita economica come precondizione dei diritti civili, non fosse altro perché costano e qualcuno li deve pur pagare, se non si vuole far regredire la «nuova società» di cui parla la signora Boldrini al mito del buon selvaggio, ovvero a una società classista, nella quale una classe, che è poi l’élite che la rappresenta in modo totalitario, fa pagare all’intero Paese i costi della propria dittatura.
In conclusione. Non si tratta di abbandonarsi al provvidenzialismo idealista, immaginando un mondo la cui storia cammina senza pause e cadute, inevitabilmente, verso il progresso e la libertà; si tratta semplicemente di fare i conti con l’esperienza empirica e affidarsi allo spontaneismo sociale, invece che al costruttivismo politico. Cosa che un libro, come quello di Bedeschi, aiuta a fare senza illusioni utopiche e restando con i piedi ben piantati nella storia.
Piero Ostellino