Luca Goldoni, Corriere della Sera 28/03/2013, 28 marzo 2013
IL MITO DEL GAZEBO ULTIMA PIAZZA REALE
Nella storia politica di questi anni, spicca il ruolo del gazebo. Se la «rete» rappresenta la piazza virtuale, la piazza reale ha la sua icona nel gazebo dove si raccolgono firme per sottoscrizioni, mobilitazioni, referendum e tanti eccetera. Non mi sembra superfluo ricordare come e quando il vocabolo entrò nel nostro linguaggio.
Eravamo a metà anni 70 e — fra nascita e morte delle Br, crisi petrolifera e «Sì» al divorzio — ci trovammo in tasca quattro soldi e una gran voglia di spenderli. L’evoluzione delle nostre case era scandita da momenti storici: c’era stato il momento del soggiorno che seppelliva definitivamente il salotto, poi quello della taverna, della mansarda e così fino al momento del gazebo. Tanti anni prima si chiamava familiarmente «bersò», ed evocava merende, vecchie zie, maglioni sferruzzati, estenuanti pomeriggi di canaste e Monòpoli. Quindi, ribattezzato con l’esotico nome di gazebo, anche l’affettuoso pergolato dipinto da Silvestro Lega entrava in un’orbita snob. «Si presentano con la piantina del terrazzo — diceva un architetto —, a volte anche di un balcone che misura un metro per tre: ebbene, pretendono ugualmente il gazebo anche se, dopo averlo sistemato sul balconcino, non ci entra più nessuno e gli ospiti lo ammirano dalla finestra: "Avete proprio un bel gazebo"». Qualche tipo eccentrico acquistò una vetusta edicola dei giornali, ferro battuto, cupola rococò e bandierina di latta. Così, il gazebo diventava il monumento del terrazzo.
Ma per fargli degna cornice, ci voleva il verde. E così assistemmo al boom del giardinaggio. In verità noi italiani non abbiamo mai molto amato i fiori, siamo un popolo calpestatore di aiuole, che sventra i boschi per fare legna. Gli inglesi hanno definito questa nostra insensibilità un «vuoto di spirito». A esser sinceri, per lunghi anni nel dopoguerra, prima di piantare garofani o petunie, abbiamo dovuto piantare cavoli e patate. Forse più che un vuoto di spirito era un vuoto di stomaco.
Comunque questo Rinascimento floreale coinvolse anche il sottoscritto: mi rivolsi a un tipo che faceva il nuovo mestiere di scenografo da terrazza e che mi intrattenne sulla vegetazione che faceva al caso mio. Quando appresi che mi sarebbe costato meno arredare un salone in Luigi quattordici, cominciai a depennare le specie più pregiate, comprese le mie amate ninfee rosa di Monet con stagno a bacinella. Salvai una decina di cipressi nani, un po’ di petunie e un tralcio di vite americana. Ci vogliono molte cure?, chiesi. «Macché cure: sole, e un po’ d’acqua, quando si ricorda».
Fu così che scivolai nell’allucinante avventura: sfido chi definisce il giardinaggio un hobby. È un lavoro da servo della gleba: l’equazione terra+acqua+sole=fiori, è una vile menzogna. Primo: «la» terra non esiste. Esistono «le» terre: acide, calcaree, compatte, sabbiose, se uno sbaglia terra, non cresce niente. E anche se la imbrocca, non basta: ci vogliono le supposte vitaminiche, i fertilizzanti spray e ogni tanto bisogna cambiare la terra, come i pannolini ai neonati.
Puerile illudersi di risolvere il problema con un innaffiatoio. Dopo aver vanamente innaffiato dei semi di nasturzio, telefonai a un amico florista. «Cosa intendi per dare acqua ai semi — mi interruppe — se li innaffi schizzano via, per forza non spuntano. Ci vuole un giornale: lo stendi sul vaso e poi lo innaffi così passa solo l’umidità».
Innaffiai la stampa italiana e qualcosa cominciò a spuntare, poi tolsi la stampa e seguitai a innaffiare i germogli, che invece seccarono. Mi dissero che ero pazzo a innaffiare con acqua di rubinetto, calcarea. Ci voleva acqua piovana o, se proprio non rinunciavo al rubinetto, acqua «riposata»: cioè lasciata al sole per l’intero pomeriggio, se no i fiori pigliavano freddo. Semplicemente delittuoso, poi, innaffiarli prima del tramonto: le gocce si trasformavano in lenti e i fiori bruciavano. Così, pian piano scivolai nella schiera dei barbari che, dopo averli amati per un giorno, detestano i fiori, i quali devono stare alla luce, ma non ai raggi, e il sole, maledizione, si sposta e allora bisogna spostare i fiori e invece se li sposti si ammalano. Una massaia recriminava: «Sono riuscita a far morire anche le piante grasse, che non le distruggi neanche a martellate». Insomma migliaia di famiglie vivevano sotto una tirannide di azalee, filodendri, ortensie. La verità, ripeto, è che gli italiani non amano i fiori. Amano le mode e le mode passano. Infatti, dopo tanti anni, gazebo da terrazza non ne vedo più. Sono migrati nelle piazze e in luogo di fiori espongono dépliant, coccarde, registri da firmare. Quanto a noi floricultori, oggi siamo squattrinati e, invece di gerani, abbiamo ripreso a coltivare ortaggi.
Luca Goldoni