Gabriele Beccaria, La Stampa 27/3/2013, 27 marzo 2013
WILSON: GUIDIAMO LE ASTRONAVI MA CON LA TESTA DEI CAVERNICOLI
«Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando?». Queste domande senza tempo, affacciate sulla metafisica, sono il titolo che si scioglie nell’atmosfera onirica della celebre tela di Paul Gauguin. Ora Edward Wilson prova a dare una risposta multipla, oltre i dogmi della filosofia e della religione, portando in scena una scienza spogliata di freni morali e tabù intellettuali. Un ribaltamento di prospettiva che ha fatto urlare allo scandalo: lui è il più celebre entomologo del mondo e a 83 anni il professore-guru di Harvard - noto per essere il fondatore della sociobiologia - è sicuro che i tormenti sintetizzati nei colori dell’amato Gauguin si possano placare con un lunghissimo filo rosso che lega i comportamenti delle formiche al destino degli esseri umani, in un panorama che dall’oggi si snoda fino a 100 milioni di anni fa.
Così con un impasto di archeologia, biologia evoluzionistica, neuroscienze e matematica ha spiazzato molti colleghi, proponendo la sua spiegazione di che cosa ci ha reso umani e ci ha trasformati nella specie dominante: in una parola, è l’eusocialità. Siamo tutti eusocialisti, anche senza saperlo, e infatti - sostiene Wilson - incarniamo uno strano ibrido, «una civiltà da “Star Wars” con emozioni da età della pietra, istituzioni medievali e tecnologia da semidei».
Tanto rivoluzionario nei concetti quanto elegante nell’eloquio, l’anziano professore parla volentieri nel suo studio di Harvard dell’ultimo saggio che fa tanto discutere (il 27°), vale a dire «La conquista sociale della Terra», edito da Raffaello Cortina. E dice: «E’ vero. La ricerca della verità ha fatto arrabbiare molti. Anche Richard Dawkins, che ha costruito la propria carriera a partire dalla teoria della selezione di parentela. Ma è almeno da un decennio che si è capito che si tratta di un concetto pieno di punti deboli». Professore, lei sostiene che l’euso cialità è una delle più grandi inven zioni nella storia della vita: siamo scimmie nude che vivono in comunità multigenerazionali, praticano la divisione del lavoro e tendono a comportarsi in modo altruistico, proprio come le formiche, ma a diffe- renza di questi insetti abbiamo fatto un salto ulteriore, sviluppando una doppia natura conflittuale, egoista e generosa, angelica e diabolica. Può spiegare perché un’idea simile appa re così sconvolgente? «Già nel 2010, in un articolo su “Nature” che ho scritto con due straordinari matematici come Martin Nowak e Corina Tarnita, avevamo sfidato la teoria della selezione di parentela, secondo la quale un organismo rinuncia a una parte delle proprie risorse e si assume una serie di rischi per aiutarne un altro, con il quale ha un legame ravvicinato. Funziona solo in modo limitato e quindi, in linea con la maggioranza degli studiosi degli insetti sociali, avevamo proposto in alternativa un’altra teoria - quella dell’eusocialità, appunto - nota anche come selezione multi-livello: lì ci sono due aspetti da tenere a mente».
Quali sono? «Ho deciso di raccontare tutto nel mio libro perché sapevo di avere ragione e perché non è più possibile applicare la vecchia teoria a ciò che abbiamo scoperto di recente, dall’antropologia alla psicologia. Ora, finalmente, cominciamo a dare un senso al tutto e a definire una spiegazione complessiva delle nostre origini». Interpretando l’evoluzione, lei so stiene secondo alcuni in modo ma nicheo che la selezione di gruppo sia responsabile delle nostre virtù, mentre la selezione individuale sia alla ra dice dei nostri mali, dall’egoismo alla violenza. E’ un modello che ci condizionerà per sempre o che muterà? «E’ la domanda delle domande!».
Questo è anche il puntochiave della sua ricerca: non è così?
«Ho scritto due articoli proprio sul tema, “Evolution and our inner conflict” (l’evoluzione e il nostro conflitto interiore) e “The riddle of human existence” (l’enigma dell’esistenza umana): come vede sto diventando estremamente ambizioso. Ma dobbiamo affrontare i temi-chiave della condizione umana. E la risposta è sì: si tratta di una situazione permanente, in cui i comportamenti individuali e competitivi si manifestano all’interno del gruppo, ma allo stesso tempo esistono molte prove del fatto che tendiamo anche a essere cooperativi e a manifestare evidenti azioni altruistiche. E non a caso nel mondo animale sono state individuate almeno 17 linee evolutive contrassegnate da diversi livelli di collaborazione. Se l’umanità si riducesse a una sola unità collettiva, in cui nessuno devia, diventeremmo simili a formiche e, d’altra parte, se fossimo soltanto aggressivamente individualisti, non ci sarebbe una società come la conosciamo. E’ la gara tra questi aspetti e il loro continuo conflitto a scatenare la nostra creatività e l’ho sottolineato in un altro saggio, “Letters to a young scientist”: se nella scienza e nella tecnologia sono gli individui a elaborare le idee, ci vogliono poi i gruppi per applicare e trasformare al meglio le invenzioni stesse». Guardando al passato pro fondo, lei sostiene che siamo stati più fortunati che abili: la nostra evoluzione è l’effetto di una pura casualità? «Osserviamo la storia della nostra specie, da quando, circa 6 milioni di anni fa, ci siamo separati dalle scimmie: molte linee del genere Homo si sono succedute e a partire dall’Australopithecus abbiamo inventato il bipedismo, ma si trattava sempre di piccole popolazioni, spesso alle prese con frequenti cambiamenti climatici, e tutte si sono estinte, tranne noi Sapiens. E anche noi, in almeno un’occasione, siamo andati molto vicini a sparire». Rivolgendosi al futuro, però, scrive che non è irrealistico pensare che potremo risolve re molti problemi e, già entro il XXII secolo, trasformare la Terra in «un paradiso permanente». Non sta peccando di ottimismo? «E’ vero che molti di noi scienziati sono ottimisti, ma guardiamo la realtà: non credo che diventeremo davvero pacifici e “buoni”, perché l’energia delle nostre esistenze proviene dalla competizione. Pensiamo agli sport e al calcio o alla nostra permanente fascinazione per i contrasti tra gruppi diversi e per le controversie internazionali. È un piacere che definirei istintuale e non credo che ci rinunceremo, ma allo stesso tempo, credo che, se riusciremo a sprecare meno tempo e risorse nei conflitti aperti, potremo far emergere le nostre qualità e così, riconoscendo e accettando la nostra reale natura, realizzare i nostri sogni». Crede veramente che la scienza potrà sostituire la filosofia e la religione in questo delicato processo di autoconsapevolezza? «Per me è importante sottolineare la necessità di capire noi stessi ed è proprio questa capacità che ci manca di più. È il motivo per cui ho scritto “La conquista sociale della Terra”, tentando di tornare agli interrogativi della filosofia e della religione: da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Finora non abbiamo fatto molto bene, come specie, anche se abbiamo a disposizione una scienza e una tecnologia da semidei. Non credo che dobbiamo sbarazzarci delle fedi, piuttosto di quei miti con i quali cercano di spiegare la nascita del mondo, conservando invece i riti di passaggio e il senso di una realtà globale e superiore. È ora che proviamo davvero a capire chi siamo, anche se non abbiamo ancora iniziato a farlo».