Franco Venturini, Corriere della Sera 27/03/2013, 27 marzo 2013
LE DIMISSIONI DEL MINISTRO TERZI UN DANNO PER IL PAESE (E I MARO’)
Dimettersi «per salvaguardare l’onorabilità dell’Italia», come ha fatto ieri il ministro degli Esteri Giulio Terzi, è un atto di estrema rilevanza anche quando il governo è esso stesso dimissionario. Una motivazione tanto alta e solenne deve obbligatoriamente escludere risentimenti personali, e anteporre l’interesse nazionale ad ogni altra circostanza. Ebbene, è andata così nella triste vicenda dei marò che ora ha spinto all’abbandono il titolare della Farnesina?
Fatta salva la sua personale buona fede, crediamo di no. Crediamo che la scelta di Terzi abbia invece pregiudicato gli interessi nazionali in un momento cruciale per la già malridotta immagine del Paese, e abbia recato danno ulteriore, facendo venir meno anche formalmente l’unità governativa, alla causa dei due fucilieri di Marina che a Nuova Delhi attendono di essere processati. Ha fatto bene il ministro della Difesa Di Paola, che pure con Terzi aveva trovato inizialmente ampi punti d’accordo, a dire nell’aula parlamentare che «oggi sarebbe troppo facile abbandonare la nave» e a rifiutarsi di seguire l’esempio del collega dimissionario.
Ma se la decisione di Terzi ci pare errata e dannosa benché vestita di coerenza, non sarebbe né corretto né veritiero mettere alla berlina un solo responsabile dello psicodramma diplomatico che ha scosso l’Italia, sommandosi al generale disorientamento politico, tra l’undici e il ventuno marzo scorsi. Dieci giorni che non hanno sconvolto il mondo come quelli della Rivoluzione d’Ottobre raccontati da John Reed, ma che certamente hanno messo a nudo la politica estera italiana rivelandone una inquietante crisi sistemica accanto a confusioni congiunturali e stupefacenti carenze analitiche.
L’undici marzo il ministro Terzi batte tutti in velocità e annuncia che i marò non torneranno in India dalla loro licenza elettorale. Vengono avanzate motivazioni giuridiche opinabili ma anche difendibili, tra le quali non figura tuttavia il timore della pena capitale. Non è esatto dire che Palazzo Chigi e Quirinale non fossero informati, ma quella di Terzi sembra essere una volontà di bruciare le tappe rispetto a percorsi più graduali previsti al vertice del governo e sul colle più alto.
In questa fase risulta già evidente una carenza di coordinamento forse spiegabile con le altre urgenze dell’ora, ma si fa anche pesantemente sentire la mancanza di un organo collegiale sul modello del Consiglio per la sicurezza nazionale esistente in altri Paesi e sempre affossato in Italia dalle gelosie dei vari ministri. Non basta. Quando l’India reagisce accusando (giustamente) l’Italia di essere venuta meno alla parola data e limitando (illegittimamente) la libertà di movimento del nostro ambasciatore, si scopre che nessuno da noi si è dato la pena di prevedere le più che probabili risposte di Nuova Delhi. Si mormora che «in fondo gli indiani saranno contenti di non avere più questa grana», impazza una dietrologia d’accatto, ma non risultano approfondimenti seri sul nazionalismo dell’India, sulla sua politica ormai pre-elettorale, sulle sue leggi, sul fattore per noi negativo della origine italiana di Sonia Gandhi. Davvero nessuno era in grado di produrre una analisi necessaria al processo decisionale, in quelle ore?
I giorni passano, le minacce indiane diventano anche economiche, e il governo decide di cambiare rotta con l’appoggio del Quirinale. Rendersi conto di un errore è cosa meritevole. Ma il contro-giro di valzer va amministrato con cura, non quando l’aereo che deve riportare in India i marò ha già i motori accesi perché scade la «licenza», non spiegando di aver ricevuto garanzie sull’inapplicabilità della pena di morte che sono soltanto chiarimenti richiesti e già noti il dieci marzo. Terzi si oppone, è vero. Ed è vero che la somma delle due contraddittorie decisioni italiane alimenta la già avviata perdita di credibilità a prescindere da quale sia quella più giusta (la seconda, a nostro parere, anche se è stata mal gestita). Ma poi si aggiungono i «danni collaterali»: la nostra rete diplomatica all’estero viene poco e male informata, in molti casi non sa dare spiegazioni ai nostri esterrefatti interlocutori, uno sbandamento generale diventa palese.
E così ora, dopo le dimissioni di Terzi che il presidente Napolitano ha definito «irrituali» dando ancora una volta prova di misura, ci troviamo a dover ricostruire rapidamente l’efficacia della nostra diplomazia. Magari con qualche idea nuova. Dopotutto davanti al tribunale speciale di Nuova Delhi tra poco (speriamo) si aprirà il processo. E i due fucilieri di Marina meritano almeno di non avere il vuoto dietro le spalle.
Franco Venturini