Luca Faccio, la Repubblica 27/3/2013, 27 marzo 2013
NORD COREA [NELLA TRINCEA DI PYONGYANG LA CITTÀ CHE SI SENTE IN GUERRA]
La sveglia a Pyongyang, la blindatissima capitale della Corea del Nord da qualche settimana attrezzata per la guerra prossima ventura, suona ogni mattina alle sei in punto. Anzi, strilla. Poco dopo l’alba è tutto un frastuono che s’alza da centinaia di autobus di marca giapponese pitturati a chiazze con il disegno mimetico, e dotati di possenti megafoni. A un segnale prestabilito, partono puntuali dai quattro angoli della città e per ben tre ore sparano a tutto volume slogan di propaganda e canzoni popolari. Preparano la popolazione al “conflitto decisivo” contro gli Stati Uniti.
«Se entriamo in guerra contro l’America, stavolta dovremo sconfiggerla per sempre», riecheggia ovunque il delirante monito del “Maresciallo” Kim Jong-un, il trentenne Leader massimo nordcoreano assurto al potere poco più di un anno fa (dicembre 2011), sventolando speranze di pace, e che invece ora si fa ritrarre quotidianamente in tv mentre passa in rassegna i reparti delle forze armate, poste nella “massima allerta”.
Appena tre giorni fa il Massimo leader, anche noto come il Giovane generale, il Magnifico successore o, appunto, il Maresciallo, ispezionava due unità di artiglieria femminili — lui infagottato in un cappottone grigio e con le tempie rasate all’ultima maniera, loro addobbate di colbacco sul capo e di mantelline mimetiche composte di fili di paglia sulle spalle — in un luogo “non identificato” lungo la gelida costa orientale del Paese, ancora innevata. Sullo schermo fiammeggiavano salve di missili lanciati dai soldati impegnati in un’esercitazione per respingere un eventuale “sbarco nemico”.
Il programma televisivo inteso a preparare i sudditi del regime all’”inevitabile scontro da cui la Corea del Nord uscirà vincitrice” (questo è lo slogan più ripetuto) viene seguito da film di guerra. La pellicola più trasmessa è quella della presa della Pueblo, la nave dell’Intelligence americana catturata dai nordcoreani nel 1968, al centro del famoso “Pueblo affair” sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Il resto del mondo ha dimenticato quell’“affare”, ma il ricordo dell’antica umiliazione inflitta all’America, a Pyongyang è tenuto vivo. Altre pellicole sovietiche in bianco e nero accompagnano in monotonia le serate nei bar e in ogni luogo pubblico della capitale in stato di emergenza.
Sullo sfondo, s’arroventa il tono delle minacce (per ora verbali) contro le basi americane di Hawaii e di Guam, nonché contro il territorio continentale degli Stati Uniti: «Li ridurremo in cenere e fiamme il momento stesso in cui sferreranno un attacco», alza la voce il Comando supremo.
Tutto questo è iniziato da circa un mese: da quando, lo scorso 8 marzo, Pyongyang si è detta “ufficialmente in guerra” contro la Corea del Sud, in seguito alle sanzioni imposte dall’Onu. Di più: le manovre militari congiunte fra le forze armate americane e quelle sudcoreane hanno scatenato un crescendo stridulo di invettive. Ne è testimone anche la città, che fino a poco fa sembrava rifiorire dopo decenni di chiusura e di decadenza.
Basta affacciarsi nella centralissima Sungn Street per vedersi aggrediti da due uomini sulla cinquantina, abbigliati alla vecchia maniera, con la divisa tipica di Kim Jong Il, l’Eterno leader e genitore, defunto, dell’attuale. I due signori strepitano al cospetto dello straniero, forse anche per l’incontro inatteso: «Sconfiggeremo gli Usa!», urlano quelli. «Siamo prontissimi a batterli, una volta per sempre», fanno, ripetendo le parole del giovane Kim.
Il centro e le periferie, di primo mattino, s’affollano di schiere di lavoratori e lavoratrici, diretti al posto d’impiego a piedi, in silenzio e a testa bassa. Fanno da colonna sonora gli slogan gridati dagli altoparlanti. Filobus stracolmi caricano e scaricano masse di persone altrettanto mute. Il profilo di una poliziotta piuttosto alterata durante una lite con un automobilista che blocca il traffico, fornisce l’unico squarcio di normalità.
Però, c’è un’altra parte di umanità che offre un quadro diverso a Pyongyang. È la gioventù. Al contrario dei cittadini più anziani, ferreamente inquadrati nel sistema dei “tre Kim” (l’attuale Kim, il padre Kim Jong-Il e il nonno Kim Il-sung), gli adolescenti si mostrano curiosi verso il forestiero, uno dei pochissimi rimasti ancora in città. Perciò invitano con innocenza il visitatore a partecipare a una improvvisata partita di calcio a piazza Kim Il-sung. Qui si danno appuntamento anche centinaia di bambini e convergono sulla pista di pattinaggio, la nuova moda nella capitale. I loro sorrisi, i saluti spensierati che si scambiano l’un l’altro, stridono con le gigantografie dei due leader — padre e figlio — che dominano la piazza dall’alto delle tribune.
Mentre lasciamo l’allegro cicaleccio dei giovani, gli autobus mimetizzati che attraversano il grande slargo riportano alla realtà nordcoreana di questi giorni. «Sarà guerra», è lapidario uno dei due accompagnatori. Alle 11 della sera, cinque carri armati pattugliano goffi e lenti il centro della capitale. Ricordano, a chi si fosse distratto, che dal fatale 8 marzo la Corea del Nord ha disdetto l’armistizio che garantiva una pace relativamente fragile con la Corea del Sud. Tre giorni dopo, Pyongyang ha interrotto anche la linea telefonica che teneva in contatto il Comando centrale delle rispettive forze armate. In queste condizioni, basterebbe un equivoco, una mossa sbagliata, un incidente involontario per innescare una spirale dalle conseguenze inimmaginabili. «Poteva essere un sogno », sospira l’uomo di scorta assegnato dal regime, ripensando alle speranze di pace. Lo sferragliare del carro armato piomba con efficacia a far svaporare quel desiderio.