Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera 27/03/2013, 27 marzo 2013
IL VERDETTO RIPARTE DAL MEMORIALE MISTERIOSO —
Una relazione di trenta minuti per ricostruire le fasi processuali. Così, lunedì scorso, la giudice del collegio di Cassazione Piera Caprioglio ha aperto l’udienza sul delitto di Meredith Kercher. E ha puntato l’attenzione sul giudizio di primo grado, quello che aveva condannato Amanda Knox e Raffaele Sollecito per omicidio a 26 e 25 anni di reclusione. Poi si è soffermata sul racconto dei testimoni dell’accusa, sottolineando più volte la necessità di comprendere perché la maggior parte di loro fosse stata ritenuta inattendibile dai giudici di appello che invece avevano assolto i due imputati.
Quanto bastava per comprendere come l’analisi della vicenda non sarebbe stata affatto scontata. E per avere la consapevolezza che l’apertura di una strada per arrivare a un nuovo dibattimento fosse molto concreta. Il resto l’ha fatto il procuratore generale Luigi Riello che ha smontato pezzo dopo pezzo il verdetto di non colpevolezza definendo quella sentenza «un raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità» e sollecitando la trasmissione degli atti a Firenze.
Si ricomincia tutto daccapo, dunque. E il nodo fondamentale da sciogliere per arrivare alla verità su quanto accadde in quella villetta di Perugia la notte del 31 ottobre è soprattutto uno: la prima confessione di Amanda. Quell’accusa brutale e diretta contro Patrick Lumumba che invece aveva un alibi di ferro e con l’omicidio non c’entrava nulla.
«È lui l’assassino», aveva gridato la giovane americana, confermando queste parole in un memoriale che poi non è stato allegato al fascicolo del dibattimento perché ritenuto inammissibile, ma certamente aveva segnato la svolta dell’inchiesta. Un punto cruciale, come hanno riconosciuto gli stessi giudici di Cassazione che alla corte di assise d’appello di Firenze hanno chiesto di riesaminare la portata di quelle accuse infamanti.
Chi conosce i meccanismi della Cassazione assicura che i giudici hanno fatto presto a raggiungere un accordo e quindi il verdetto unanime. A dimostrarlo ci sarebbe la brevità della discussione e la complessità del dispositivo che analizza ogni capo di imputazione e poi passa la palla ai colleghi del capoluogo toscano. Perizie sui reperti e sulla personalità degli imputati, racconti, verifiche sugli alibi: tutto torna in discussione. Ma se davvero si vorrà scoprire chi ha ucciso Mez è da quelle pagine scritte a penna in inglese che si deve ripartire. Da quelle dichiarazioni rilasciate in una stanza della questura, quando la reale ricostruzione dell’omicidio era davvero lontana per investigatori e magistrati.
Fu Amanda la prima a dare indicazioni precise. Disse che la sera del 31 ottobre 2007 era arrivata a casa con Patrick e Meredith. Spiegò che il giovane voleva avere un rapporto sessuale con la sua amica, che i due si erano chiusi in camera e a un certo punto lei si tappò le orecchie per non sentire le grida «anche se avevo capito che cosa stava succedendo». Una dinamica pressoché uguale a quella raccontata da Rudy Guede che in quella casa ci stava davvero e ha ammesso di aver avuto un rapporto con Mez pur negando di essere l’assassino. Patrick e Rudy sono entrambi di colore. Possibile che Amanda abbia accusato uno per coprire l’altro? La ragazza è stata condannata per calunnia, ma i giudici che l’hanno assolta dall’omicidio hanno anche escluso l’aggravante che le era stata contestata «per aver mentito allo scopo di ottenere per sé e per gli altri concorrenti l’impunità dall’omicidio». E hanno aggiunto: «Era certa della completa estraneità di Lumumba all’omicidio, pur essendo ella stessa assolutamente estranea». Una ricostruzione illogica secondo i giudici della Cassazione che hanno ordinato di riesaminare la questione. E hanno accolto l’obiezione dell’accusa: «Se lei non c’era, come faceva a sapere che Lumumba non era nella villetta?».
Si parte da qui, ma si può arrivare lontano. Perché bisognerà riesaminare ogni indizio e analizzare gli elementi contrari, si dovranno rileggere o forse addirittura ripetere alcune perizie con un’attenzione particolare a quelle sul Dna. Si dovrà capire come mai i telefoni di Amanda e Raffaele siano stati muti la notte del delitto - mentre i due avevano l’abitudine di tenerli sempre accesi - e siano tornati raggiungibili all’alba. Appare difficile che i due imputati possano fornire dettagli utili, anche se le loro versioni sono cambiate più volte. E allora si torna a Rudy Guede, al giovane ivoriano che per il delitto è già stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere e si trova tuttora in cella.
Rudy era lì, conosce la verità. Finora ha fornito pure lui una ricostruzione confusa e a tratti inverosimile, in particolare quando ha detto di aver visto due persone scappare via dalla casa ma di non poterle riconoscere. Adesso ha di fronte un’altra occasione. Potrebbe decidere di non lasciarsela scappare.
Fiorenza Sarzanini