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 2013  marzo 27 Mercoledì calendario

IL SENATO E I 37 VOTI CHE MANCANO A BERSANI —

Le dimissioni annunciate del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ora rischiano di scompaginare i piani del Pd che, venuta meno la «stampella» del M5S, punta a una «pax berlusconiana» e a una non belligeranza della Lega per superare la difficile prova della fiducia a Palazzo Madama. Lo schema di gioco, nelle intenzioni del presidente incaricato Pier Luigi Bersani, è ricollegabile a quello della «non sfiducia» già sperimentata nella sua forma più eclatante nel 1976 dal monocolore Andreotti: quel governo, infatti, prese il via solo perché i parlamentari di Pci, Psi, Pri, Psdi e Sinistra indipendente si astennero alla Camera mentre al Senato (dove l’astensione vale per un voto contrario) uscirono in parte dall’aula però garantendo il numero legale. Nel ’76, i no ad Andreotti arrivarono soprattutto dal Msi.
Tuttavia, oggi a Pier Luigi Bersani serve una «maggioranza certificata» in tutte e due le Camere per poter rispettare le condizioni imposte dal Quirinale: «E questo — puntualizza il costituzionalista Francesco Clementi — vuol dire che il presidente incaricato deve avere i voti necessari in entrata, cioè prima di presentarsi davanti al Parlamento». Detto questo, lo scossone inferto dal responsabile della Farnesina al governo Monti (in carica per gli affari correnti) fa sembrare ancora più contorto il labirinto di contatti non ufficiali, anche con il centrodestra, che nelle intenzioni dei colonnelli di Bersani dovrebbero portare il centrosinistra a quota 159 voti. Cioè, appena sopra la soglia minima per ottenere la fiducia.
Tra gli scenari possibili, infatti, ce ne è solo uno in cui non è prevista la regia di Silvio Berlusconi: Pd, Sel e l’alleato Südtiroler Volkspartei possono infatti contare su 122 senatori (il 123° è il presidente Pietro Grasso che, per prassi, non vota) che sommati ai 54 grillini (presto verrà sostituita la dimissionaria Giovanna Mangili) assicurerebbero al centrosinistra un maggioranza autonoma. Ma questa, come confermato ieri sera dal voto dei gruppi parlamentari dei grillini, è un’ipotesi della irrealtà.
Per cui gli ufficiali di collegamento di Bersani coordinati dal capogruppo Luigi Zanda — ieri pomeriggio sono stati inviati al Senato pure Dario Franceschini e Gianclaudio Bressa — stanno lavorando per rosicchiare quei 37 voti che separano il presidente incaricato dalla «maggioranza certificata» anche al Senato. Per riuscire nell’impresa, Bersani deve innanzitutto ottenere l’appoggio dei 21 centristi e l’innesto di almeno un’altra ventina di voti. Che potrebbero arrivare dai banchi della Lega (16 senatori) e da una metà di quello strano gruppo (10 senatori) composto da fedelissimi di Renato Schifani, e dunque di Berlusconi, da un paio di leghisti, siciliani che fanno capo (rispettivamente) a Lombardo e a Micciché. Sono loro i parlamentari schierati dal Cavaliere e da Maroni con la sigla Grandi autonomie e libertà: «Noi ci muoviamo solo se Berlusconi ce lo chiede, anzi a me lo deve chiedere tre volte...», dice il socialista craxiano Lucio Barani che non stima Bersani («Mi ricorda un salumiere...») e dice di avere parecchi «conti in sospeso con i comunisti». Anche Luigi Compagna, repubblicano e pidiellino doc, conferma che «votare la fiducia a Bersani non sta né in cielo né in terra se non si muove il Cavaliere». Il capogruppo del Gal, Mario Ferrara è un fedelissimo di Schifani e lo stesso discorso vale per la senatrice Laura Bianconi. E il leghista targato Gal Jonny Crosio prende le distanze: «Io sono maroniano praticante, leghista ortodosso, e mi muovo in sintonia con la Lega. Per me non si pone il problema di cosa chiederà di votare Micciché».
Per cui, fatte tutte le sottrazioni, senza il placet di Berlusconi e di Maroni, dal Gal potrebbero arrivare a Bersani giusto 3 o 4 voti: quelli dei «siciliani» Antonio Scavone, Giuseppe Compagnone, Giovanni Mauro e Giovanni Bilardi (eletto in Calabria). In ogni caso, precisa il leader del Grande Sud, Gianfranco Micciché, «Bersani deve avere il coraggio di proporre al centro destra un governo di pacificazione....».
L’ultimo, residuale scenario chiama in causa anche quell’aliquota di grillini che ha già votato per Grasso contro gli ordini dei vertici del M5S: «Ai grillini chiedo pragmaticamente di votare la fiducia al governo Bersani», ha detto Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso dalla mafia insieme a 5 agenti di scorta nel ’92, che vanta un discreto ascendente sugli eletti del M5S in Sicilia. I senatori grillini «dissidenti», tuttavia, possono essere 5 o 10 ma da soli non sono sufficienti. Per questo, in questo secondo schema, Bersani dovrebbe ottenere la «non sfiducia» anche da settori della Lega e da quelli dei gruppi fiancheggiatori del Pdl.
E c’è da giurarci che, pure in questo caso, Berlusconi avrebbe da dire l’ultima parola su come devono votare i «suoi» senatori.
Dino Martirano