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 2013  marzo 25 Lunedì calendario

PRODI E QUEI GRANDI MISTERI D’ITALIA CHE GLI SBARRANO LA VIA DEL QUIRINALE

Autorevoli personalità, anche se trite e ritrite, danno Romano Prodi al Colle dopo Giorgio Napolita­no. Settimane fa, si sbilanciò per lui il Corsera che lo ebbe tra i col­laboratori. L’augusto Paolo Mieli, che già nel 2006 lo candi­dò a Palazzo Chigi, lo vede favo­rito al 95 per cento. Di simil pa­rere sono il mordace Enrico Mentana e il pensoso Gad Ler­ner. Non ha ancora profetato il venerando Eugenio Scalfari ma le sue inclinazioni prodia­ne sono note. Prodi ha un cursus di peso ­presidente Ue, due volte pre­mier anche se, essendo accani­tamente di parte, difetta della neutralità che sarebbe il più bel­l’ornamento di un inquilino quirinalizio. Il nodo, però, so­no i misteri che aleggiano sulla sua persona. C’è intorno a lui un quid inesplorabile, emerso in diverse circostanze, che egli stesso, trincerandosi dietro il fa­moso sorriso giocondo, rifiuta di chiarire.
L’episodio che lo rese famo­so è la seduta spiritica del 2 apri­le del 1978, sedici giorni dopo il sequestro di Aldo Moro. Il pro­fessore, con altri amici, si trova­va nel rustico del collega Alber­to Clò, in località Zappolino, trenta chilometri da Bologna. Con i bimbi in giardino e le mo­gli in cucina, gli uomini si china­rono su un foglio con le lettere dell’alfabeto e, chiedendo lumi sulla prigionia di Moro, lo per­corsero con una medianica taz­zina di caffè. Gli spiriti rispose­ro: Gradoli. Prodi si precipitò a Roma nella sede Dc di Piazza del Gesù, per comunicare il re­sponso dell’Aldilà. Causa equi­voci, gli inquirenti finirono a Gradoli, paese laziale, anziché nella romana via Gradoli, dove effettivamente Moro era incar­cerato. Vi giunsero solo giorni dopo, col covo ormai vuoto e la sorte del prigioniero segnata. Ma ciò che conta, è che l’infor­mazione era buona. Come l’aveva veramente avuta Pro­di? Lui ha sempre giurato sulla seduta spiritica. Tutti sono inve­ce convinti che si sia inventato un paravento per coprire un ti­zio in carne e ossa. I più- da An­dreotti, al ds Pellegrino,all’ex vicepresidente Csm, Galloni ­pensano che la soffiata venisse dai collettivi universitari bolo­gnesi o da Autonomia operaia, ossia tipi loschi vicini alle Br.
Da 35 anni, Romano convive con questo sospetto. Nessuno finora lo ha preso per la strozza ingiungendogli di dire il vero. Dormono le autorità, ronfa la stampa e le illazioni infittisco­no. L’ultima, del 2005, è che ci sia stato lo zampino del Kgb. Per un uomo che potremmo ve­dere presto sul Colle, l’alone è pesante. Ma lui fa lo gnorri. Im­perterrito.
Seduta spiritica a parte, di connessioni tra Romano e spio­naggio sovietico si è supposto molto nell’ultimo decennio. Primo a parlarne, nel 2006, fu un eurodeputato britannico, Gerard Batten. Stando a costui, l’ex agente dell’Urss, Alexan­der Litvinenko (poi ucciso col polonio dagli ex colleghi) gli avrebbe rivelato che «il nostro agente in Italia è Romano Pro­di». Colma la lacuna, una secon­da testimonianza che in parte conferma e in parte attenua questo imbarazzante passato prodiano. Un altro ex Kgb, Oleg Gordievsky, in un’intervista al senatore Paolo Guzzanti, già presidente della Commissione d’inchiesta Mitrokhin, disse: «Non ho mai saputo se Prodi fosse o no reclutato dal Kgb, ma una cosa è certa, quando ero a Mosca, tra il 1981 e il 1982, Pro­di era popolarissimo nel Kgb: lo trovavano in sintonia dalla par­te dell’Unione sovietica». Dun­que, se non agente, perlomeno simpatizzante del paradiso so­cialista in anni in cui Romano era già stato ministro (1978) e assumeva la guida dell’Iri (1982). Quanto ci sia di vero, è impossibile dire. Sconcerta però che Prodi (ma neanche la ma­gistratura) abbia diradato que­st’ombra. Lui tace per ridimen­sionare, ma l’effetto è di lascia­re se stesso in balia di sconcer­tanti interpretazioni.
Ora, si è aperto il capitolo Ci­na. Romano, dopo la delusione per la cattiva prova del suo ulti­mo governo (2006-2008), ha ri­volto l’attenzione al gigante orientale. Da anni, è più a Pechi­no e Shangai che a Bologna. Tie­ne corsi alla scuola del Partito comunista, è popolare mezzo­busto nelle tv locali, pontifica nelle università. È il perito dei ci­nesi per i loro affari nell’Ue e in Italia. Il suo compito più rile­va­nte è quello di consulente del­la nuova agenzia di rating cine­se, Dagong, che fa valida con­correnza alle tre sorelle Usa, Moody’s, Fitch e S&P. Poiché Dagong, a fine 2011, da poco in­sediato il governo Monti, abbas­sò l’affidabilità del debito italia­no, ci si chiese che parte avesse avuto Prodi nella bocciatura. Più o meno esplicitamente fu accusato di essere il cavallo di Troia cinese nelle nostre fac­cende. Romano querelò Libero che aveva alluso senza però de­gnarsi di spiegare il suo ruolo nella vicenda. Con il risultato di tingersi ancora più di fosco.
Sempre sull’indecifrabilità del suo comportamento, ve ne racconto un’altra. Il primo che cercò di dare con beni pubblici una bella mano all’arricchi­mento di Carlo De Benedetti, proprietario di Repubblica, è stato il nostro Prodi (gli altri fu­rono Carlo Azeglio Ciampi e Giulianino Amato). Graziosa­mente introdotto dal giornali­sta Scalfari, l’Ingegnere si pre­sentò da Romano presidente dell’Iri e gli chiese di cedergli la Sme, holding alimentare. Al­l’istante, Prodi si accordò per vendergliela a 497 miliardi di li­re. Un regalo. Tanto che il gover­no Craxi (siamo nel 1985), igno­rando la stipula, mandò il pia­no all’aria.
Si seppe poi che prima dell’In­gegnere si era fatta avanti la Heinz. Fu il ministro liberale dell’Industria, Renato Altissi­mo, ad annunciare a Prodi l’in­teresse della multinazionale. Romano però fu secco: «Neppu­re alla lontana c’è l’ipotesi di una vendita Sme. Hai idea del prezzo? Stiamo parlando di mil­lecinquecento miliardi». Un mese dopo, saltò fuori che ave­va firmato con De Benedetti. Al­tissimo, infuriato, andò da Pro­di e gli chiese: «Perché a Renato (cioè a lui, ndr) hai detto no e a Carlo sì?». Romano, con un sor­risone da zucca di Halloween, replicò: «Perché Carlo ha un ta­glietto sul pisello che tu non hai». Sottile allusione al fatto che De Benedetti, essendo ebreo, fosse circonciso. Con annesso­ sottinteso che non si pote­va dire no alla fantomatica «lob­by ebraica». Se Altissimo gli avesse anche chiesto perché va­lutando la Sme 1.500 miliardi in maggio, abbia tentato di ven­derla in giugno per 497, la rispo­sta sarebbe stata oltremodo in­teressante. Ma ciò non avven­ne. Il silenzio si aggiunge alla li­sta dei misteri di Prodi. Voglia­mo davvero al Quirinale un uo­mo che porta con sé un simile fardello da spy story?