Raffaella De Santis, la Repubblica 26/3/2013, 26 marzo 2013
DIARIO DI UN CRITICO
«Tutta la critica è una forma di autobiografia ». David Shields apre così il suo ultimo libro, dando una bella spallata alla figura del critico tradizionale, giudice distaccato e autore di recensioni emotivamente glaciali, ma intellettualmente ineccepibili. La parolina magica per Shields, del quale è da poco uscito
How Literature Saved My Life (Come la letteratura mi ha salvato la vita), è “immedesimazione”: «Mi piace solo ciò in cui riesco a immedesimarmi ». Oggi tra gli intellettuali seduce chi appare più sincero e meno professorale, come in politica, dove il tecnico puro va perdendo inesorabilmente quota nei favori della gente comune.
Ma le vie dell’ego sono infinite. Se fino a qualche anno fa parlare in prima persona era una prerogativa dei romanzieri, ora anche la critica letteraria si tuffa nella scrittura autobiografica, tra saggio e memoir, citazioni colte e racconti di esperienze personali. David Shields, Michael Chabon, Geoff Dyer, Nicholson Baker: tutti critici-scrittori, tutti anglosassoni. Ciascuno interessato alla sua maniera a infilarsi tra le pieghe delle analisi dei testi personalizzandole alla luce della propria vita.
Shields spiega di voler cancellare il confine che separa vita e arte. Niente di nuovo, si dirà, da Baudelaire in poi siamo abituati al grande salto. Salvo che adesso si inverte la relazione. Nessuna posa estetizzante, nessun tentativo di sublimare la quotidianità nell’opera d’arte, ma semmai l’opposto: portare i libri al nostro livello, usarli per vivere meglio, un po’ come si fa con i manuali di self-help. Shields affronta in modo esteso il tema della paura della morte, inanellando una serie di citazioni colte, da Tolstoj a Beckett a David Foster Wallace, per poi passare a parlare di sé, dei suoi lutti personali, della madre morta di cancro e di una collega sparita all’età di 44 anni. Stessa cosa quando apre il capitolo amore. Solito mix di libri letti ed episodi autobiografici: da Rebecca, la ragazza incontrata al college, agli incontri decisamente hard con un’insaziabile dominatrice in giarrettiera. Dal libro deve arrivare una speranza di salvezza, qualcosa che incida sulla nostra biografia, che la modifichi in qualche modo. «Vivo nel terrore di diventare mio padre », confessa Shields, raccontando le crisi depressive paterne, la sua infanzia di bambino balbuziente e infine la scoperta salvifica della letteratura. E viene in mente, per citare un italiano, il
Libro della gioia perpetua (Rizzoli) in cui Emanuele Trevi, autore e personaggio, si risveglia dal suo stato di rassegnazione e abbattimento grazie all’incontro con una storia scritta da una bambina di otto anni.
Ormai il saggio asettico e pieno di note ha fatto il suo tempo, sostituito dal diario personale, empatico e agile. In Rete, d’altra parte, si parla così, dicendo “io”. È come se il critico tradizionale, con il suo sguardo distaccato e la sua retorica forbita, fosse diventato d’un colpo un animale preistorico. Il “bello” è diventato “mi piace”, un
like istintivo, sul web come nella pagina scritta. Shields scrive capitoli veloci molto brevi. E dice chiaramente: «Quando leggo un libro non voglio che niente si metta tra me e la pagina».
Il saggio memoir deve prima di tutto apparire sincero, dare l’illusione di parlare al cuore, di non barare. Ma l’operazione nasconde qualche insidia. Andrea Cortellessa, che in Libri segreti aveva manifestato la necessità di una complicità tra il critico e i suoi testi, pensa che si tratti di mode un po’ populiste: «Si punta sulle pulsioni più immediate, indossando la maschera del Buon Selvaggio e fingendo di essere un lettore ingenuo. Ma è una simulazione, un effetto retorico, che se adoperato male può diventare kitsch e in alcuni casi squalificante». Sulla stessa linea d’onda Gabriele Pedullà: «Siamo di fronte a un vizio di sensualismo critico. Non è così che si deve coinvolgere il lettore. L’analogia
vita-letteratura giocata in questo modo è superficiale, mentre una vera lettura deve arrivare a scoprire somiglianze più profonde, meno esplicite.
Madame Bovary è un libro sulla morte, sull’illusione del tempo che passa, poco importa se ha degli elementi della trama in comune con la vita di chi la va leggendo. Il confronto non può effettuarsi sul piano del plot».
Quando il critico smette di essere il poliziotto che controlla le frontiere dei testi e diventa un lettore qualsiasi che partecipa e si entusiasma, è ovvio che vinca chi sa farlo meglio. Non stupisce allora che gli scrittori si sostituiscano agli accademici. Sul piano della narrazione emotiva infatti non può esserci confronto. Anche Jonathan Lethem ha definito la sua ultima raccolta di saggi L’estasi dell’influenza “una specie di autobiografia” (in Italia è stata pubblicata da Bompiani). E infatti per oltre 600 pagine l’autore, una specie di satiro con la testa del critico e il corpo dello scrittore, vaga tra la miriade dei suoi ricordi personali: i genitori hippie, i primi lavoretti come commesso in piccole librerie di Brooklyn, l’amicizia durante l’università a Berkeley con Bret Easton Ellis, già coole molto drogato. La scrittura saggistica pesca nella vita, nelle esperienze private. Ne viene fuori un bricolage di entusiasmi tra i più rapsodici: i libri letti grazie alla mamma bohemienne (John Updike, Marshall McLuhan, Anaïs Nin); i fumetti della Marvel divorati da ragazzo; la musica di James Brown e Bob Dylan; il racconto di un viaggio verso New York nel cuore della notte; le prime lezioni di guida con il padre pittore. Niente di più distante dal canone occidentale di Harold Bloom o dalle divagazioni filosofiche di George Steiner. Lethem è un corsaro che saccheggia un po’ ovunque, dentro e fuori di sé, senza distinzioni, e bisogna confessare che qualche volta verrebbe da commentare chissenefrega.
Franco Cordelli, scrittore e critico letterario, si mostra allergico alle semplificazioni: «Penso che questo tipo di approccio critico sia una reazione all’idea della letteratura come scienza in nome della letteratura come vita. Il rischio è però che si sfoci nello spontaneismo e si perda la competenza. Insomma, non si può esagerare. Che un critico si metta a raccontare la propria vita mi sembra stupido, ridondante ».
In questo strano collage di realtà e finzione veniamo trascinati dentro un’anomala intimità letteraria. Quasi tutti questi saggisti esploratori del Sé amano darci informazioni sulla loro infanzia. Non fa eccezione Michael Chabon che in Mappe e leggende, pubblicato da Indiana, racconta la sua tenera età trascorsa a Columbia, una città quasi deserta nel Maryland. Scopriamo allora che, annoiandosi un po’, il piccolo Michael si dedicava alle letture fantasy: Tolkien, il Libro dei tredi Lloyd Alexander, Conan Doyle, Ray Bradbury, Philip José Farmer, Jack Vance. In un modo simile nel suo ultimo saggio Alex Ross non solo ci chiama direttamente in causa (Senti questo ci dice fin dal titolo), ma tra un’Eroica di Beethoven e un disco dei Sonic Youth, si appassiona e cerca di coinvolgerci nella storia dei suoi genitori, ricercatori di mineralogia e grandi collezionisti di dischi: «La mia è una sorta di autobiografia trasformata in manifesto». Così, Nicholson Baker in U and I
presenta l’opera di John Updike partendo da sé, attraverso un elenco delle cose che lo accomunano allo scrittore di Coppie: la psoriasi, l’insonnia, il fatto di scrivere per il New Yorker…
Mentre Elif Batuman, americana di origini turche, nel bestseller I posseduti insegue i romanzieri russi come farebbe una groupie, lanciandosi a convegni di ogni tipo in infradito e camicie di flanella. Molto diversi invece gli inseguimenti letterari del tedesco W. G. Sebald in
Soggiorno in una casa di campagna (Adelphi), che sono sempre incontri necessari con il proprio destino.
La lista potrebbe continuare, segno che abbiamo una grande fame di scritture “vere” (il libro precedente di Shields s’intitolava proprio Fame di realtà).
Ma bisogna stare attenti. Già Roland Barthes scrivendo la sua autobiografia a metà anni Settanta avvertiva: «Questo non è un libro di confessioni», consapevole del fatto che in fondo niente è meno sincero della prima persona singolare.