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 2013  marzo 26 Martedì calendario

MA PAPA FRANCESCO STUPIREBBE ANCHE BELLI

Chissà se mai la letteratura riuscirà a raccontarci l’incontro storico tra il nuovo e il vecchio papa. Ai tempi di Bonifacio VIII, il problema non si poneva: Celestino V, secondo gli storici, avrebbe fatto in tempo a pronunciare una sola frase al suo successore («Hai ottenuto il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane») prima di essere raggiunto dai soldati e recluso nella rocca di Fiumone, in Ciociaria, che si trovava nelle terre di Bonifacio VIII. Ma tra Benedetto XVI e Francesco, a Castel Gandolfo, niente di tutto ciò.
Salvo casi eccezionali, gli scrittori hanno sempre visto nel Papato la contraddizione più abbagliante tra potere spirituale e potere temporale. Non solo Dante, che fece della simonia un Leitmotiv della Commedia. Francesco sembrerebbe stare nel solco del teologo Gioacchino da Fiore (1130-1202), che auspicava l’avvento della Chiesa spirituale, dopo la fine della Chiesa carnale, e non per nulla fu collocato dall’Alighieri nel Paradiso. Ma già Chaucer, nel Trecento, raccontò la battaglia di un parroco di campagna contro la corruzione della Chiesa. «Peccatori sì, ma non corrotti!», ha detto papa Bergoglio.
È proprio la corruzione del clero il tema prediletto dagli scrittori, quando si soffermano sul Vaticano e dintorni. Pietro Aretino ne avrebbe fatto l’argomento di due dialoghi tra prostitute. Il Papa può diventare, tutt’al più, in molte pagine rinascimentali, una sorta di mecenate e principe, come furono Giulio II ed Enea Silvio Piccolomini, cioè Pio II, ma precipita subito nella considerazione dei più diventando oggetto di satira, specie in area protestante.
Nella tragedia di Marlowe, Faust e Mefistofele, grazie al dono dell’invisibilità, avranno il privilegio di assistere a un lauto pranzo del pontefice con Raimondo d’Ungheria, e si divertiranno a rubargli il piatto e il bicchiere di vino da sotto il naso e a sferrargli un duro colpo in testa ad ogni boccone. Procedendo, lo sguardo degli scrittori non cambia di molto. E si arriva ai sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, dove la corte vaticana viene affrescata come un’accozzaglia di voluttuosi: «Qua magna er Papa, magna er Zagratario / de Stato, e quer d’Abbrevi e’r Camerlengo, / e’r Tesoriere, e’r Cardinal Datario». Il poeta romano si concentra sul celibato per ironizzare: «Iddio non vò ch’er Papa piji moje / per nun mette ar monno antri papetti». E in attesa che si apra il Conclave, non ha dubbi: «Be’? Che papa avremo? È cosa chiara, / o più o meno, la solita canzona. / Chi vòi che sia? Quarch’antra faccia amara, / compare mio, Dio ce la manni bona». Oggi, tutto potrebbe dire Belli, tranne che Bergoglio sia «la solita canzona» o un’altra «faccia amara». E forse sarebbe sorpreso persino lui.
Paolo Di Stefano