Salvatore Cannavò, il Fatto Quotidiano 25/3/2013, 25 marzo 2013
L’ITALIA NON E’ PIU’ L’AMERICA
Prendete il cammello e tornate a casa! Apocalisse... Now!”. È una delle frasi che, nel film “Cose dell’altro mondo”, meglio descrivono l’imprenditore leghista interpretato da Diego Abatantuono che si esibisce in tv con proclami razzisti e xenofobi. Oggi gli immigrati tornano davvero a casa o, meglio, scompaiono improvvisamente da tutte le città del Nord-est. Un po’ come era accaduto in un film statunitense, al quale si è ispirato il regista Francesco Patierno, in cui i messicani abbandonavano gli Stati Uniti mettendo in ginocchio un’economia ormai modellata sul lavoro straniero.
Il racconto del film resta un paradosso ma da quando, in Italia e in Europa, la crisi morde in profondità, l’emorragia di immigrati è diventata vera. Di fronte all’aumento della disoccupazione, alla chiusura di migliaia di imprese, alla cinghia delle famiglie sempre più stretta, una massa consistente di lavoratori e lavoratrici stranieri preferisce andarsene. Per tornare a casa o, forse, semplicemente per cercare fortuna in altri paesi. L’Istat stima in circa 800 mila la riduzione di immigrati in Italia tra il 2010 e il 2011, sulla base dell’ultimo censimento: da 4.570.317 a 3.769.518 (-8,5%). Un dato su cui nutre alcuni dubbi la Caritas nel suo prezioso Dossier statistico ma che è riscontrabile anche negli altri “Pigs” d’Europa, quei paesi, cioè, vittime della recessione e additati come i “malati” del continente: Spagna, Irlanda e Portogallo. Sono i dati Eurostat a confermare il “deflusso” di manodopera straniera: -2,3% in Portogallo, -1% in Spagna, -7% in Irlanda. La flessione del 18,5% in Italia può essere eccessiva e dare ragione alle cautele della Caritas che, però, nel suo dossier conferma il dato generale: “Secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea - si legge - il tasso di disoccupazione tra la popolazione immigrata non Ue (25%) nel 2011 era oltre il doppio di quelli nazionali con un aumento di 5 punti rispetto al 2008”
Badanti addio?
Due dati aiutano a visualizzare il fenomeno. Da una parte il calo delle rimesse dei lavoratori immigrati nei paesi d’origine, diminuite nel 2012 dopo cinque anni consecutivi di crescita. Lo scorso anno, invece, sono passate da 7,4 miliardi a 6,8 miliardi di euro, con una flessione dell’8%, secondo la Western Union. Un calo attribuibile alla recessione come dimostra la diminuzione dell’occupazione fra gli immigrati, nel biennio 2010-2011: circa il 3,3%, quasi il triplo rispetto all’1,2% dei cittadini italiani (dati Ocse).
Il secondo dato che rivela un fenomeno carsico, ma reale, riguarda uno dei lavori più tipici degli immigrati, anzi delle immigrate, quello domestico. Secondo l’Inps le donne italiane sono tornate a fare le “colf”, le collaboratrici domestiche. Nel 2008 le domestiche e badanti di nazionalità italiana erano 119.936, numero che negli anni successivi è cresciuto costantemente fino ad arrivare a 143.207 del 2011, un incremento del 20%. Segno della crisi, ovviamente, e del fatto che sempre più si accettano lavori ormai dimenticati. Ma effetto anche della contestuale diminuzione di offerta da parte delle lavoratrici immigrate che, dati della Fondazione Leone Moressa, sono diminuite tra il 2010 e il 2011 del 5,2%.
Secondo la Fondazione “l’incremento di coloro che lasciano il paese riguarda tutte le nazionalità, escluse poche eccezioni, come per esempio il Bangladesh”. “In generale - scrive l’istituto vicino all’associazione Artigiani di Mestre - sembrano lasciare l’Italia quelle popolazioni provenienti da paesi in via di sviluppo, per cui si può ipotizzare una propensione al rientro nel paese di origine oltre che allo spostamento verso altri paesi terzi”. I flussi di ingresso e di uscita, quindi, vengono modificati anche se non al punto da incidere sulla tendenza di fondo.
Nel mondo si continua a migrare e coloro che si sono trasferiti da un paese all’altro nel 2011, secondo le Nazioni Unite, sono stati 214 milioni, il 3% della popolazione mondiale. Più interessante, poi, è cogliere il “potenziale migratorio”, così lo definisce la Caritas, individuato dalla società di sondaggi statunitense Gallup che misura le persone adulte “che hanno espresso il desiderio di lasciare in maniera permanente il proprio paese”. La cifra complessiva sale a 640 milioni per i quali la meta preferita sono gli Stati Uniti (150 milioni) seguiti dalla Gran Bretagna (45) e dal Canada (42). L’Italia è al nono posto con 18 milioni di potenziali immigrati.
Si emigra ancora, dunque, tanto che in dieci anni, dal 2002 al 2011 i flussi in ingresso di cittadini stranieri hanno superato i tre milioni e mezzo di unità. Ma da qualche anno si torna anche a casa in una “fuga” lenta, probabilmente momentanea, motivata anche dalla collocazione occupazionale degli immigrati. Assistenza familiare, edilizia, agricoltura. In tutti la crisi è verticale, in particolare nel settore dell’edilizia, dove, ad esempio, sono concentrati moltissimi rumeni e lavoratori dell’Est europeo e che, secondo l’associazione di settore Ance, si è ridotto tra il 2008 e il 2013 del 30%. Settori, però, in cui i lavoratori migranti sono sempre stati utili, divenendo con il tempo decisivi, quasi indispensabili. Sempre nel dossier della Caritas si può leggere di quanto la forza lavoro straniera sia divenuta decisiva in agricoltura. Come afferma la Cia-Confederazione Italia.
Lavoratori sempre più necessari
Agricoltori, “in soli quindici anni il numero di immigrati occupati in agricoltura è divenuto il 20% circa del totale, che dimostra e racconta il ruolo indispensabile assunto negli anni dagli extracomunitari in campagna e sui campi”. Si tratta, quindi, di lavoratori immigrati fondamentali per l’agricoltura nazionale.
Dall’inserimento in gangli importanti dell’economia nazionale, però, si è passati a una espulsione crescente, frutto anche della condizione di fragilità dei lavoratori stranieri. Secondo i dati del ministero del Welfare, gli immigrati in cerca di occupazione sono ormai circa 450 mila. Anche l’Ires-Cgil pubblica dati analoghi. “Dal primo semestre 2008 al giugno 2012 - scrive l’ufficio studi del sindacato - il tasso di occupazione è calato di circa 2 punti percentuali con una perdita di oltre 460 mila occupati”. Il dato si riflette direttamente sulle percentuali di disoccupazione complessive che sono passate, per gli italiani, dal 6,7% del primo semestre 2008 al 10,3% del primo semestre 2012. Per i lavoratori comunitari, però, (in cui bisogna ricordare va inserita la Romania) il dato è cresciuto fino al 14,3% mentre per i non comunitari fino a 14,5%. È facile prevedere che una simile tendenza possa alimentare tensioni sociali e nuove guerre tra poveri ma si traduce anche in una significativa perdita economica.
Nonostante questi dati, però, come sottolinea ancora il Dossier della Caritas, “il lavoro degli immigrati è diventato imprescindibile” in settori importanti: “il settore domestico e familiare, il settore infermieristico” in cui l’apporto “di professionisti stranieri” è ben utilizzato nelle regioni settentrionali o nella sanità privata e poi nell’agricoltura o nell’edilizia come abbiamo visto. “Il mercato del lavoro - scrive Maurizio Ambrosini dell’Università di Milano - rimane gremito di lavori faticosi, a basso riconoscimento sociale” e l’Italia si conferma importatrice di braccia. Insomma, conclude la Caritas, “noi abbiamo bisogno di loro almeno quanto loro hanno bisogno di noi”.