Filippo Ceccarelli, la Repubblica 26/3/2013, 26 marzo 2013
L’ALTRA METÀ DELL’UOMO DI ARCORE
Tutti i nodi vengono al pettine. E adesso, dinanzi a questa sentenza, può sembrare una deviazione paradossale, oppure una vana sofisticheria, ma quando Dell’Utri definisce polemicamente la sua ormai ventennale vicenda giudiziaria “un romanzo criminale”, dice il vero.
Ma lo dice, lo rivela e ancora di più lo tradisce nel senso pieno della storia degli uomini e della realtà dei crimini, che sono entrambi sempre molto avventurosi, e a raccontarli sembrano inventati, romanzati, e invece no.
E tuttavia, nel suo caso, il genere letterario che si adatta meglio è il teatro, certo drammatico, con la tragedia che suona il campanello del portone. Dell’Utri parla come un personaggio del teatro e racconta sempre cose che si possono mettere in scena. La mattina in cui fu condannato per la prima volta a sette anni di carcere, mentre si faceva la barba, pensava al processo e — presagio altamente romanzesco — si tagliò il mento: «Compresi allora che sarei stato dichiarato colpevole».
In Sicilia, per indicare una punizione mortificante, si dice “una tagliata di faccia”. Questa di ieri è la sua seconda, significativamente definitiva. Era l’uomo del patto berlusconiano con il diavolo, e qui siamo a Faust. Ha spiegato una volta, con l’aria indifferente e quasi annoiata di chi sa di non essere creduto: «Mi hanno accusato di incontrare il boss Santapaola perché andavo a Siracusa per assistere alle tragedie greche che, come amministratore di Publitalia, sponsorizzavo».
Peccato che una volta abbia fatto causa a Dario Fo per una rappresentazione in cui veniva tratteggiato come un mafioso. Del resto una decina d’anni orsono, già alle prese con i processi, si fece rappresentare un’Apologia di Socrate piuttosto piegata sui suoi impicci e la portò in giro per l’Italia e anche per l’Europa, al Parlamento di Strasburgo. Prima dello spettacolo vero e proprio, Dell’Utri saliva sul palcoscenico e spiegava la persecuzione cui era sottoposto da innocente. Un giorno l’attore e regista si ribellò a quel confronto. Di lì a poco, come contrappasso, da Santoro cominciarono a far leggere ad altri attori i testi delle intercettazioni, colloqui telefonici con Berlusconi dopo una bomba con sottigliezza tutta palermitana definita “amichevole”. Insomma, il teatro continuava.
La trama è esaltante perché non è mai finita. Lui è spuntato dal nulla (si disse all’università), esordì come segretario, poi come maestro di corte ad Arcore, gli ha presentato il famoso stalliere e certamente ha fatto del bene al Cavaliere, alle sue aziende, poi al suo partito; ma altrettanto bene ha ricevuto in cambio. Soldi, regali miliardari di cui gli stessi magistrati si stupivano, amicizia vera, libri antichi, collane editoriali di gran pregio affidate alla sua passione bibliofila, un’incredibile villa lacustre, di recente, con tanto di straordinaria casa sugli alberi, riacquistata dal Cavaliere senza troppo guardare al vero valore.
Ma Berlusconi, che probabilmente non ha letto Shakespeare, ha commesso l’errore di non fare con questo siciliano troppo colto e troppo intelligente ciò che i sovrani inglesi come Enrico IV facevano con gli amici ingombranti, dotati di terribili artigli, che li avevano aiutati a conquistare il trono: mandarli a combattere lontano, perché “la loro la loro forza può ben farmi temere di essere di nuovo deposto”. Cosa che per l’appunto sta accadendo.
E anzi Berlusconi l’ospitava a Palazzo Grazioli e pure l’ospitalità nel mausoleo gli garantiva e una volta, in una manifestazione di Forza Italia davanti alle telecamere, stette per un buon quarto d’ora a lodarlo con la mano appoggiata sulla spalla di Dell’Utri. Il quale per la verità sembrava meno gioviale e ironico del solito, anche un po’ inebetito. Stato d’animo che comunque in tale occasione non gli impedì di definire il famoso stalliere Mangano “un eroe”. E quando è troppo, è troppo.
Curioso personaggio, comunque. Astutissimo siciliano, si fa dare una sòla clamorosa da uno svizzero sui diari di Mussolini, acquistati con la collaborazione di Lele Mora, e leggendoli si commuove e arriva a farseli pubblicare (solo il primo volume), ma poi non gliene importa più niente, pensa a certe lettere di Tommasi di Lampedusa, oppure si fissa con Nerone, che come imperatore
non era poi così male.
E tutte a lui accadono, o intorno a lui, zuffe con Cossiga a proposito del litio, compravendite sospette, pentiti che si ripentono, tavolate con Flavio Carboni, teste di legno in società dai nomi strani, tipo “Palina”, confessioni di astinenza sessuale offerte a Klaus Davi, gigantesche cassate che gli arrivano sotto le feste da personaggi sospetti, avventure editoriali tipo
Il Domenicale, notazioni anche curiose sulle facce “gotiche e un po’ dark” dei conduttori televisivi della sinistra, e molto altro ancora, non sai mai bene quanto vero, quanto falso, e a tale proposito vale qui riportare una indagine secondo cui, per mangiare insieme ai fratelli Graviano, era stato scelto un ristorante che si chiamava: “L’Assassino”.
Dell’Utri è anche un uomo di spirito, ma non tanto sulle cose che lo riguardano. In compenso, nei confronti di Berlusconi, si è sempre riservato una sorprendente autonomia di giudizio che solo la superiore cultura deve avergli consentito. Come la volta in cui ha raccontato di aver risposto a certe ansie al Cavaliere riportando quanto Petrarca consigliò a certo Tommaso da Messina: “Vuoi la gloria? Muori”. E al netto del poeta non si capisce bene se si può ridere o se bisogna avere un po’ paura. Forse tutte e due le cose. Il grande teatro della realtà, anzi della vita, è tragicomico. Ma la Giustizia, che pure è abbastanza teatrale, lo sopravanza e tutti i nodi, una volta arrivati al pettine, deve pure tagliarli — altrimenti che giustizia è?