Maurizio Cucchi, La Stampa 26/3/2013, 26 marzo 2013
MANZONI: LA LOMBARDIA? MEGLIO SOTTO L’AUSTRIA PIUTTOSTO CHE INDIPENDENTE
«Rosmini non farebbe altro che star chiuso a studiare e scrivere, mentre Manzoni abborre lo studio ed il silenzio; il parlare per lui è una specie di ginnastica per il cervello che gli è salutare e necessaria». E ancora: «Manzoni lungo la via c’intrattenne sempre con la sua conversazione istruttiva e pétillante di spirito». A raccontarci di questo Manzoni, nella quotidianità delle sue vacanze al lago, è una nobildonna milanese che incontra a Lesa, Baveno, Stresa, dove è appunto il Rosmini, da Manzoni stimatissimo.
Margherita Provana di Collegno era la figlia del marchese Lorenzo Trotti di Bentivoglio ed era nata a Milano nel 1811. La sua importanza nel tempo del Risorgimento non fu né secondaria né comoda. Fu infatti costretta all’esilio, in Belgio, in Germania, in Francia, e fu punto di riferimento dei liberali, a Firenze, a Milano, a Torino, dove non era troppo ben vista da Cavour. Il marito Giacinto Provana di Collegno aveva combattuto nell’armata napoleonica e aveva partecipato ai moti piemontesi del ’21. Fu amico di Garibaldi, ebbe importanti incarichi politici (ministro della Guerra nel governo Casati durante il Regno di Sardegna, inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Parigi) e morì nel 1856.
Margherita, detta Ghita, scrisse un suo Diario politico 1852-1856 , pubblicato postumo da Hoepli soltanto nel 1926, a cura di Aldobrandino Malvezzi che ne scelse il titolo. Una parte viene ora riproposta, a cura di Lorenzo Mondo, con il titolo Caro Manzoni, Cara Ghita (Sellerio, pp. 146, € 12). Comprende per intero il diario del 1853, e frammenti degli anni 1854, ’55, ’57, ’59, nei punti, cioè, dove più frequente è la presenza di un amico d’eccezione di Ghita, appunto Alessandro Manzoni, che faceva parte di una ristretta cerchia in soggiorno sul Lago Maggiore.
Il Diario di Ghita offre una grande quantità di frammenti che ci avvicinano all’autore dei Promessi sposi . Lo vediamo che vuole parlare di politica mentre la moglie, donna Teresa, «l’interrompe per parlare de’ fatti suoi». Lo vediamo che gioca a tarocco con allegria, «rammentando tutti i modi di dire milanesi dei taroccanti di professione». Ma soprattutto lo troviamo impegnato nei suoi discorsi attorno a un tema decisivo come quello della lingua, che desidera sia «una lingua parlata comune, per cui una stessa cosa sia chiamata col medesimo vocabolo da un capo all’altro d’Italia». Ghita ci spiega che «la sua antipatia per i francesi gli scappa fuori da tutti i pori», che legge agli amici i versi di Carlo Porta, del quale dice: «benché le sue poesie dimostrassero un uomo ardito ed imprudente, era paurosissimo e timido oltre modo», e ne ha comunque grande stima. «Per Monti aveva un’amicizia vivissima», e quanto a Giuseppe Giusti sostiene: «Fate un bacio su quel bel viso sul quale la malizia e la bontà hanno fatto pace». Parla spesso, naturalmente, di politica, «delle prepotenze austriache» (12 agosto ’53). E scriverà poi Ghita, 28 settembre ‘55: «Egli desidera che la Lombardia stia ancora qualche anno sotto l’Austria piuttosto che venire a un accomodamento, come sarebbe di fare della Lombardia uno Stato indipendente. Indipendenza (dice Manzoni) è una parola vuota di senso quando si applica a uno Stato piccolo. Uno Stato piccolo non è mai indipendente».
Un libro, insomma, che ci offre una quantità di spunti e che, peraltro, non si limita a tratteggiare alcuni aspetti del carattere e della personalità del Manzoni, ma si sposta anche su altri personaggi, come il D’Azeglio, il napoletano Ruggiero Bonghi, che, dice Ghita, afferma di non aver visto «mai un altro uomo, per dotto ed intelligente che fosse, che avesse tanta finezza e tanta originalità ed elevatezza di osservazione su di ogni materia ed argomento quanto Manzoni». Il quale aveva, come è noto, una grandissima stima di Rosmini, che morì a Stresa proprio in quel periodo, nel 1855. Compaiono inoltre un Leopardi che non è Giacomo, ma l’abruzzese Pier Silvestro, che nel ’65 diverrà anche senatore del Regno d’Italia. E come Giovanni Prati, che «declama versi tutto il giorno», e del quale Bonghi dice: «Amo meglio sentirlo declamare i suoi versi che parlare in prosa, perché allora declama ancor più». Insieme con tutto questo, si affaccia la possibilità che Giuseppe Mazzini non sia lontano, tanto che il 15 novembre del ’53 Ghita annota: «Si parla sempre di un probabile movimento mazziniano a Milano».
Un piccolo gioiello, dunque, questo libro, perché ci avvicina a grandi figure, e in particolare ad Alessandro Manzoni, come se davvero avessimo avuto il privilegio di incontrarlo. Ce ne rivela il tratto umano, gli umori e il carattere. E anche per questo ci invoglia a tornare sull’opera, come su quella degli altri personaggi che appaiono in quelle giornate, in quel tempo storicamente così importante per il nostro paese, sulle sponde del Lago Maggiore.